venerdì 30 maggio 2014

Tra pergole e pargoli



Gabriele D'Annunzio, Il piacere, 1889.


Foto ripresa da magicmoonlightfreeimages.

So far: la spada del rivale ha trafitto il nostro eroe ed ora, per recuparare la salute, si abbandona alla vita del convalescente nella casa di campagna della cugina. Qui, in solitari pensamenti ed elevazioni artistiche, si spurga delle passioni cittadine e incontra nuove conoscenze che aggiungono nuove melodie al suo orecchio.  Ma, ad un tratto, donna Maria Ferres arriva a far visita a Donna Francesca, la cugina di Andrea Sperelli. Donna Maria, colta, intelligente, un po' triste per un destino infelice, giunge con un marito insignificante e una figlia graziosa al seguito. Andrea Sperelli, naturalmente, se ne invaghisce.

Beh, sarebbe stato strano il contrario. La scenografia c'è tutta. Un mare in lontananza dagli accenti cangianti e centinaia di vele a solcarlo.

Degli anfratti dalle melodie magiche, quasi incantatrici, come in una favola:

Le cento fontane di villa D'Este. Immagine presa da www.tuscany-villas.it
Una bella dama a cui dichiararsi...
Insomma, tutto è perfetto. Se non fosse che, con la dama, arriva anche la figlia della dama, una bella bimba che assomiglia alla madre, ma che ha una perversa abilità: quella di capitare sempre a fagiuolo.

E così, passeggiando nei luoghi incantati, la dama trova i versi che l'esteta ha composto e trascritto ai piedi di una statua, in un luogo magico. Lei si china, lui aspetta con ansia il suo verdetto che non potrà essere negativo e che lo farà brillare agli occhi della signora. Ma, ecco la bambina, che graziosamente, ma diciamo anche insistentemente e un po' violentemente, salta addosso alla mamma chinata sui versi, le chiude gli occhi con le manine, la strattona quasi. Addio momento aulico. Il povero Sperelli inizia a guardare con sospetto alla piccola tiranna. Già prima aveva confessato a se stesso di esserne geloso, a causa di tutte le attenzioni che la dama focalizzava su di lei. Figurarsi ora!

Ma non è finita. Eccoli là, davanti alle fontanelle che cantano col loro getto ineguale. La bambina è finalmente corsa via. Lui, Sperelli, ha appena avuto l'ardire di confessare l'inconfessabile e attende fiducioso una reazione.
E la reazione?
Qual'è?
 
"Delfinaaaaaaa!!! (la bimba) Dove sei???".
OUTCH! Bella scusa per svicolare. Ma vabbè, stavolta non è proprio colpa dell'infante.
Se non fosse che poi i due si siedono mentre lei, la piccola, continua a scorrazzare qua e là. Lui ci riprova, con un tatto leggermente insistente. Cerca ancora sul volto di lei una risposta, un accenno che gli faccia presagire una corrispondenza di sentimenti. Forse, quelle labbra serrate e serie, forse quell'espressione contrita...
Ah, eccola di nuovo apparire, la bambina! Alle spalle, l'infida, afferra il viso della madre e quell'espressione che avrebbe dovuto rivelare al conte la natura dei turbamenti della dama si scioglie in risa sonore di allegria al gioco della pargola.

Non faccio fatica ad immaginare la faccia del conte. E quanto ho riso sotto i baffi pensando a lui, al pathos che cerca di costruire e a quanto basta poco per distruggerlo: una monellina vivace e anche un po' viziata e troppo amata.

E, naturalmente, la fine dell'episodio: loro silenziosi, che tornano a casa e, a occupare i loro pensieri in subbuglio, le chiacchiere infinite della bambina molesta che racconta storie senza senso, a raffica.

Bambina disegno, Conconi, Luigi. Ripreso da qui.
Ecco qua, siamo arrivati appena alla metà del secondo libro su un totale di quattro, e ce ne sarebbero ancora mille di cose da raccontare e mostrare. Ma io mi fermo qui. Altrimenti va a finire che il blog si trasforma davvero in un monumento al piacere.

Nel prossimo post una piccola considerazione sul nostro conte Sperelli e su Dorian Gray e poi decidiamo cosa leggerci, che dite?



martedì 27 maggio 2014

Le donne di Andrea Sperelli


Gabriele D'Annunzio, Il piacere, 1889.



Donna Franca Florio, Giovanni Boldini, 1901.
 Si dice che Donna Elena Muti sia
 stata ispirata dalla sua figura.
Immagine ripresa da anna-warvick.livejournal

So far: Donna Elena Muti, dopo uno struggente addio, è fuggita via dal suo amante-esteta-artista Andrea Sperelli, senza spiegazioni. Il conte Sperelli, per superare l'abbattimento morale in cui un tale abbandono lo ha condotto, si getta a capofitto alla conquista di nuove amanti.

La cosa bella di D'Annunzio è che non si fida troppo della capacità immaginaria del lettore. Non lascia nulla al caso, tiene sempre al guinzaglio la nostra fantasia, in modo da guidare la nostra conoscenza dell'animo del conte Sperelli senza possibilità di fraintendimenti. E come fa? Beh, diciamo che non si limita a descrivere, ma riconduce ogni singolo oggetto di piacere a immagini che noi stessi possiamo ritrovare nel mondo reale. Un esempio? I vasi delle rose del post precedente, che si ritrovano nel quadro del Botticelli nella Galleria Borghese. E le donne dello Sperelli, anche loro oggetti di piacere, che si associano a ritratti di donne celebri.

Vogliamo dar loro un'occhiata?

 Donna Bianca Dolcebuono:

Ritratto di Giovanna Tornabuoni, Ghirlandaio, 1488.
Ripresa da Wikipedia.

Barbarella Viti, la mascula:

Betsabea che si lava, Rembrandt Van Rijin, 1654.
 la contessa di Lùcoli:

La maga Circe, Dosso Dossi,  1522-1524, partic.
Immagine presa da habanera-nonblog

la marchesa Du Deffand:

Ritratto di Juliette Recamier, Nicolas Jacques,dopo 1805.
Immagine presa da Wikipedia.

 E poi c'era Donna Ippolita Albónico, la donna per cui si batte quasi per capriccio:

Maria Maddalena of Austria, moglie del duca Cosimo II de' Medici,con il figlio, Sustermans, 1623 ca.

Ma tutte queste donne riescono a compensare l'assenza dell'amante preferita, di Donna Elena? O, almeno, riescono a dargli un po' di pace?
Ciascuno di questi amori portò a lui una degradazione novella; ciascuno l'inebriò d'una cattiva ebrezza, senza appagarlo; ciascuno gli insegnò una qualche particolarità e sottilità del vizio a lui ancóra ignota. Egli aveva in sé i germi di tutte le infezioni. Corrompendosi, corrompeva. La frode gli invescava l'anima, come d'una qualche materia viscida e fredda che ogni giorno divenisse più tenace. Il pervertimento de' sensi gli faceva ricercare e rilevare nelle sue amanti quel ch'era in loro men nobile e men puro. Una bassa curiosità lo spingeva a scieglier le donne che avevan peggior fama; un crudel gusto di contaminazione lo spingeva a sedurre le donne che avean fama migliore.
 Mmmhh, no, pare proprio di no. Riuscirà la spada a far quello che l'amore non è riuscito a fare?

(To be continued...)

Ops, dimenticavo di dirvi...
Ho trovato questo:




Naturalmente questo circola sul web da prima del mio scorso post, ma io l'ho incontrato solo per caso, proprio scrivendo delle donne di Sperelli. Stesse immagini, simili sensazioni, proprio a dimostrare quanto D'Annunzio sia stato bravo e scrupoloso nell'arte di trasmettere, se non proprio di imporre, l'atmosfera e le visioni che il lettore deve percepire leggendo la sua opera.



sabato 24 maggio 2014

Signori, ecco a voi la scena



Gabriele D'Annunzio, Il piacere, 1889.


Palazzo Zuccari, residenza di Andrea Sperelli.
So far: Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d'Ugenta apre la scena. Aspetta nei suoi locali del palazzo Zuccari la sua vecchia amante che non vede da due anni. E per ingannare il tempo, si guarda intorno, si abbandona ai ricordi, cullato dalla presenza di oggetti che hanno partecipato in modo misterioso all'effusione delle gioie passate.

Nel Piacere, la scenografia acquista un ruolo di primo piano non solo per il lettore che guarda la scena, ma, soprattutto, per lui, l'esteta che trae piacere dal bello che lo circonda. Ma lui, Andrea Sperelli, non è il semplice spettatore di tanta bellezza. Quale perfetto esempio di esteta, lui la modifica, lui la ricrea negli oggetti che lo corcondano. E così:
Tutti quegli oggetti, in mezzo a' quali egli aveva tante volte amato e goduto e sofferto, avevano per lui acquistato qualche cosa della sua sensibilità. Non soltanto erano testimoni de' suoi amori, de' suoi piaceri, delle sue tristezze, ma eran partecipi. [...] Per la natura del suo gusto, egli ricercava negli amori un gaudio molteplice: il complicato diletto di tutti i sensi, l'alta commozione intellettuale, gli abbandoni del sentimento, gli impeti della brutalità. E poiché egli ricercava con arte, come un estetico, traeva naturalmente dal mondo delle cose molta parte della sua ebrezza. Questo delicato istrione non comprendeva la comedia dell'amore senza gli scenarii.
Gli oggetti alimentano il suo piacere e allo stesso tempo se ne impregnano, quasi divenissero marchiati di quel sentire  intenso che il protagonista vive. In questo modo, essi acquistano ancora più valore sulla scena perfetta che diventa la Vita. D'Annunzio, allora, trova fondamentale descrivere la scenografia, affinché anche il lettore riviva un po' di quella magia incantatrice che rende così preziosa l'esperienza sensuale. A braccetto di Andrea Sperelli, guardiamoli, allora, questi oggetti di piacere.

Il tappeto persiano  del XVI secolo dai colori serici.
 
Persia centrale, Metà del XVI sec., Età Safavid.
Tappeto Persiano “ISFAHAN”.
Immagine da Oltre il muro
 I vasi delle rose, con il lungo collo dorato e la forma a giglio del calice, simili a quelli che si vedono sul fondo del tondo di Botticelli, alla Galleria Borghese.


La vergine del Botticelli, tratta da qui.

Candele attorte di color arancio molti intenso:
 


No, non sono "attorte", ma mica facile trovarle sul web! Probabilmente non vanno più.

E il piccolo specchio appeso al fianco del caminetto? Bellissimo non tanto per quella cornice dai disegni dorati e ben lavorati, quanto per quel colore antico che gli specchi acquistano, per quella superficie "offuscata e maculata che aveva apparenza d'un'acqua torba, un poco verdastra", simile a quella di questo specchio:
.


Ed ancora: il servizio per il tè in maiolica di Castel Durante, che doveva essere simile a questo:

Zoan Maria Vasaro da Casteldurante (Casteldurante, 1510-20 ca)
Leda e il Cigno.
E poi le rose:


Rose ovunque, rose mature che perdono petali come fossero fiocchi di neve, che ricoprono i tappeti, che vestono il corpo dell'amante, che espandono il loro profumo come fosse incenso.

Colori, sensazioni, persino testure che sfiorano non solo gli occhi.

Molti altri oggetti riempiono l'alcova di Andrea Sperelli. Purtroppo Google non sembra trovarvi il fascino che ci vedo io e le mie ricerche di alcuni mobili, ad esempio, sono state infruttuose. Eggià, se volete vedervela, la scena completa, mi sa che vi tocca proprio leggervelo, questo Il piacere.



mercoledì 21 maggio 2014

Reading in progress: torniamoci sopra e giriamoci intorno



Gironzolando qua e là, come ogni tanto mi capita di fare, ho scovato un gruppo di lettura interessante che, di tanto in tanto, si diverte a gettare spunti non banali sul ruolo del lettore, sulla sua missione, sulla sua essenza. Lasciando da parte le discussioni sulla nobiltà dell'essere lettore e sull'elevazione di non precisata natura che questo particolare esercizio può apportare a chi lo pratica, mi sono gettata su questo: Il lettore ideale, riassuntino di  Appunti per una definizione del lettore ideale di Alberto Manguel.

Immagine da Bulimia letteraria
Ora, se andate a leggere l'articolo, non sbirciate subito l'ultimo punto, vi toglierebbe il divertimento. Scorrete fino in fondo e iniziate da là. Soffermatevi, però, sul punto numero 3.
Qui si legge:
Il lettore ideale percorre il sentiero battuto. “Un buon lettore, gran lettore, un lettore attivo e creativo è un rilettore.” Vladimir Nabokov.
Come dargli torto?

Ed ecco una delle mie perle (direi di saggezza, ma non oso essere presuntuosa :D).
La lettura, la comprensione dell'opera, non è un qualcosa di fisso e immobile. Girovagando tra libri, scoprendo e scavando intorno, ma anche semplicemente facendo esperienze di vita, il lettore evolve e lo stesso fa la sua capacità di entrare in comunicazione col libro. E così può succedere che non solo l'interpretazione di un'opera, ma persino il grado del suo godimento, possa cambiare. Senza contare che le prime letture, in genere, sono emotive, si corre inseguendo il filo e spesso si sorvola su dettagli che ad una seconda lettura possono procurare un grande piacere.

Ho detto piacere?

Dovevo dire Il Piacere. Ed aggiungerci Gabriele D'Annunzio.

Gabriele D'Annunzio, ripresa da Wikipedia

Oddio, che è successo? Stavo parlando di lettori e mi ritrovo tra le braccia di D'Annunzio?

Seguire la traccia delle mie piroette è piuttosto semplice, credo: tornando indietro di qualche lettura, svoltiamo nelle stanze de Il ritratto di Dorian Gray, per arrivare nella splendida Roma dei papi di Gabriele D'Annunzio.
E adesso non fate i vaghi, la loro relazione è evidente: tutti e due sono colossi della corrente estetica che gironzolava per l'Europa a fine '800 e tutti e due innalzano agli altari della gloria un edonismo sfrenato. Si potrebbe continuare per ore, menzionando la loro idealizzazione artistica della Vita, il loro culto estetico, etc. etc.
Certo, sfumature non banali li differenziano. E magari ne parlerò persino. Ma prima di lanciarmi in una vera e propria comparazione, dopo essermi letta d'un fiato il romanzo di D'Annunzio, vorrei rileggerlo con calma, magari insieme.

Ecco qua spiegato il mio incipit sconclusionato. Tutto era finalizzaro all'annuncio di un'altra sessione delle Reading in Progress, avente per soggetto, questa volta, una rilettura che ha seguito a breve distanza una prima lettura rocambolesca.

Ma prima di riprendere Il Piacere tra le mani, mi sento di spezzare una lancia in favore dello scrittore D'Annunzio.
Quanti lo hanno sentito menzionare come uno dei più grandi scrittori del '900 italiano?
Ammettiamolo, tutti!
Indolence (Salon des Artistes Français de 1914)
Autore: Seignac Guillaume (1870-1924).
Ripreso da verat.pagesperso-orange
Ma quanti lo hanno mai letto?
"Ma è fascista! E che mi metto a leggere un fascistone?!"

A chi la pensa così, rivelerò un segreto, che tanto segreto non è: D'Annunzio scrive bene. Naturalmente il suo italiano è un po' vecchiotto, ma come descrive lui la passione e il desiderio, l'analisi psicologica delle pulsioni e la sensualità che riesce a far trasparire da ogni cosa... non so se ce ne siano tanti capaci allo stesso modo e di sicuro, al momento, non mi vengono in mente. Non date retta a chi lo trova esageratamente inamidato e impettito. O, almeno, dategli la possibilità, prima di condannarlo, di difendersi un minimo.

Quindi, aboliamo le etichette e tuffiamoci nella rilettura, diventiamo per un attimo lettori ideali e scopriamo Il Piacere D'Annunziano senza pregiudizi. Troveremo un attento osservatore dell'anima, oltre che un grande scrittore.




domenica 18 maggio 2014

Stacchetto giornalistico



L' 11 ottobre del 1860 esce a Palermo il primo numero de L'Indipendente, giornale fondato a Palermo da Dumas Padre, con il benestare di Garibaldi che, nel mentre, galoppava verso Napoli alla conquista dell'Italia. O liberazione, che dir si voglia.


Immagine presa da dumaspere.com

E che ci faceva, a Palermo, Dumas?

Nulla di ché. Seguiva e sosteneva Garibaldi e i suoi Mille. La versione ufficiale dice che, per caso, da grande viaggiatore quale era, Dumas si era imbarcato per un giro del Mediterraneo, nel 1860, una specie di crociera con giovane amante al seguito. Approdato a Genova verso la fine di maggio e saputo che Garibaldi era partito con i suoi Mille giusto qualche settimana prima, decide di seguirli e di spendere tutti i soldi del viaggio per sostenere l'impresa, armi e risorse varie comprese. Ma magari, quel "per caso" non era proprio per caso, visto la sua appartenenza a società massoniche che si dilettavano a sconquassare l'ordine politico vigente. Ma questo poco ci importa.

L'indipendente uscì, quindi, a Palermo, ma si trasferì a Napoli appena Garibaldi la prese. Qui, continuò ad uscire fino al 1876, sebbene il suo fondatore se ne fosse già tornato in Francia nel 1864. Misto di articoli in francese e in italiano, il giornale raccoglieva storie edite e inedite del grande romanziere, ma anche discorsi di Garibaldi, la storia dei Borboni rivista dalla penna dello scrittore e, tra le altre cose, il racconto L'assassinio di rue Saint-Roch, quello che ricorda tanto I delitti della rue Morgue di Poe.

Copie del giornale sono ancora conservate nella biblioteca nazionale di Napoli e quelli di Dumaspere ne danno notizia nel loro sito. Loro hanno persino cercato, con successo, di procurarsi delle copie, come spiegano nel post, e alcuni articoli dell' Indipendente compaiono anche sul loro sito.

E adesso una confessione: penso e ripenso al nostro Cundari, curatore della pubblicazione di quel racconto L'assassinio di rue Saint-Roch. Qualcuno, autore anonimo di una recensione apparsa non ricordo più dove, insinuò il vago dubbio che tutta la faccenda potesse essere semplicemente un jeu d'esprit dello stesso Cundari. Eppure...
Che Cundari sia finito davvero a Napoli, nella biblioteca nazionale, a leggiucchiarsi L'indipendente, articolo per articolo, fino a trovare la storia del detective Edgar Poe?
Argh, se avessi tra le mani quell'edizione curata da lui, in cui spiega il mistero del ritrovamento!
Ma poco male, invierò scagnozzi alla ricerca del testo citato e vediamo cosa salta fuori. : D



giovedì 15 maggio 2014

Libri elettronici e libri di legno



E adesso vi racconto come sono capitata a leggere la storia di Enzo Baiamonte, radiotecnico cinquantenne, scapolo, palermitano.
Ebbene, è stato uno di quei casi la cui colpa è ascrivibile a coincidenze astrali non ben specificate, magari accoppiate ad un senso di lasciva immobilità che colorava un tardo pomeriggio estivo (si fa presto a dire "estivo"! Qui dove stiamo è sempre estate ; P), afoso, insulso ed abbandonato. Abbandonato dall'Harry Quebert del post precedente che aveva posto la parola Fine sull'ultima pagina dell'ultimo capitolo. Eggià, ero in piena crisi d'abbandono da romanzo divorato e tergiversavo su cosa mi sarei potuta leggere per rimpiazzare il senso di perdita - che, ad essere sincera, non era così devastante, ma un pizzico di drammatizzazione non guasta mai.

Insomma, diciamolo chiaro e tondo: mi annoiavo.

Gatto pigro ed annoiato, preso da Persephone magazine.

E cosa fa una lettrice saggia quando si annoia? Sfoglia le offerte speciali su Amazon!

Ed eccolo qua, il romanzo perfetto:
- un titolo accattivante: Il libro di legno (La memoria), di Gian Mauro Costa, 2010;
- un'edizione di cui uno, in genere, si fida: Sellerio;
- un prezzo che fa ridere i polli - di felicità, naturalmente (offerta lampo a 99 centesimi);
- un "giallo" scritto sotto il titolo, tanto per rimarcare quello che la copertina mi aveva già suggerito.
- un radiotecnico palermitano come protagonista che, per arrotondare un po', a tempo perso fa il detective privato.

Gian Mauro Costa presenta Il libro di legno.  
Immagine da Alia Notizie
A dire il vero, se avessi considerato solo quest'ultimo dettaglio forse non l'avrei preso troppo in... considerazione, appunto.Beh, un radiotecnico che ripara televisori e tubi catodici e, nel contempo, risolve casi? Anche se nell'altro post dicevo che i migliori detective sono quelli che non ti aspetti, questo mi sembra un po' esagerato.
Ma poi, durante la storia, si scopre il personaggio - delizioso! - e gli si perdona che, per arrotondare lo stipendio da fame che l'era del plasma gli rosicchia sempre più, si è ridotto a fare lo scagnozzo di un avvocato di dubbia morale che di tanto in tanto lo manda a fotografare squallidi amanti colti in flagrante. Ecco, questo genere di detective di sicuro non te lo aspetti come protagonista di un bel giallo.

Giallo? Beh, forse l'aspetto giallo non è proprio la sfumatura migliore del romanzo. Sì, c'è un mistero, una ricerca, cosette così, ma a mio parere tutti questi ingredienti non hanno una reale forza persuasiva.
La sua forza sta in altro.
Prima di tutto nella descrizione di una Palermo vissuta attraverso gli occhi di chi ci è cresciuto, di chi, pur non accettandone le dinamiche, le racconta come normali, come vita quotidiana. Questa è la scena che il malinconico, ma non triste, Enzo Baiamonte si ritrova a percorrere, tra realtà diverse di questa Palermo dipinta con uno stile perfettamente evocativo.

Evocativo: quanto detesto i critici che tirano fuori questa parola quando meno te l'aspetti, pretendendo che la sua sola presenza illumini tutto il senso. Io non l'ho mai capita fino in fondo, ma leggendo I libri di legno ho creduto, finalmente, di avvicinarmi al suo significato. Davanti allo sguardo della mente si illuminano scene di un passato ancora colorato di sensazioni. I bambini che tirano calci al pallone in mezzo alle strade polverose, la luce che entra nella penombra di una stanza rimasta ferma nel tempo atraverso una tendina pulita, persino il vecchio laboratorio da radiotecnico, buio, riempito di scatole colme di rottami misteriosi. Ogni immagine parla di un passato che io ho conosciuto da bambina e che sembra ancora sospeso sulla Palermo immota di Enzo Baiamonte. Ed è questo, molto più che non il mistero un po' fiacchino, quello che intriga del romanzo.

Ma per ora basta con i polizieschi. La lettura di parole belle, quelle di Gian Mauro Costa, mi ha fatto venire voglia di altre parole belle, italiane, ormai lontane dal gusto e dalla filosofia odierna.
Ma prima, vi tocca subire lo stacchetto!


lunedì 12 maggio 2014

Il duro mestiere del detective





Chi lo ha detto che i migliori indagatori del crimine sono poliziotti?
Nessuno in effetti. Da Mr Dupin della Rue Morgue a Don Matteo della Rai Fiction, molti dei migliori, o almeno dei più riusciti, sono altro: Dupin è un solitario gentiluomo in disgrazia che non disprezza il suo destino; Sherlock Holmes è un detective privato; Miss Marple, una gentile vecchietta; Don Matteo (al momento l'eroe di famiglia preferito) è un prete. Oddio, anche Guglielmo da Baskerville, il frate detective de Il Nome della Rosa di Umberto Eco (1980) era un prete. E forse quest'ultimo verrà ricordato un pochino più a lungo del nostro beniamino biondo televisivo. Poi arrivano i giornalisti con le loro inchieste (un esempio tra tutti Mikael Blomkvist della trilogia di Millennium di Stieg Larsson, 2005-2007) e non possono mancare, a seguire, gli scrittori.

Copertina e autore di La verità sul caso Harry Quebert

La verità sul caso Harry Quebert di Joël Dicker (2012) è uno di quei polizieschi in cui il detective è uno scrittore. Uno scrittore in crisi, perché dopo un primo libro sfolgorante, l'ispirazione se ne è scomparsa, inghiottita dalla solita crisi della pagina bianca che spesso diventa protagonista nei romanzi che parlano di scrittori. Tra le altre cose, quindi, c'è uno scrittore e il suo blocco.
Tra quelle "altre cose" a cui accennavo, c'è anche un mèntore che in anni precedenti ha aiutato il giovane scrittore a divenire tale, oltre che ad aiutarlo a divenire adulto. Non rovino molto della lettura dicendo che questo maestro di vita e di scrittura è proprio il menzionato Harry Quebert, mostro sacro della letteratura americana divenuto tale grazie al suo famoso romanzo "Le origini del male". E non penso di spoilerare il romanzo più di tanto lasciando intuire (velatamente! Non sia mai!) che ad un tratto proprio questo Harry Quebert si ritrova accusato dell'omicidio di una giovane quindicenne scomparsa da più di trenta anni che, guarda caso, si svela essere stata sua amante.

Blocco dello scrittore?
Ecco qua. Metà del libro l'ho passata a percorrere il passato dei protagonisti, un passato che balza qua e là su una linea temporale di più di trenta anni e che racconta principalmente di lui, Harry Quebert, della giovane Nola e di Marcus, scrittore in crisi d'ispirazione. E per tutta quella metà, che non è poca, mi sono chiesta che cosa ci avesse trovato di così travolgente la persona che me lo aveva tanto raccomandato. Certo, i caratteri sono ben definiti e il loro passato risulta anche interessante, non lo nego.  Ma ad un certo punto mi sono ritrovata quasi a sentire l'eco di frasi già lette, pensieri già ascoltati, anche se il lettore paziente intuisce, sotto sotto, che ci deve essere uno scopo latente.
Mi sono anche chiesta come può un uomo maturo di 34 anni innamorarsi di una bambina di 15 anni, perché queste erano le età degli amanti all'epoca della scomparsa della ragazzina; e, soprattutto, mi sono chiesta come può lo scrittore vero, Joël Dicker, raccontare questa relazione un po' perversa in maniera convincente, senza lasciare che al suo lettore gli cadano le braccia ogni volta che ascolta il 34enne Harry Quebert, mostro sacro della letteratura statunitense, parlare del suo amore travolgente per la giovane Nola. Sì, per la giovane Nola quindicenne, la giovane donna che ride come una bambina, che parla come una bambina e che, anche quando si dichiara, si rivolge al suo oggetto del desiderio dandogli del "lei". Senza contare la figura che ci fa lui, Harry Quebert, che per lungo tempo non riesce a far altro che ripetere come un cerebroleso il nome di Nola o a scribacchiarlo ovunque. Ma forse, tutto sommato, era questo l'unico modo per rendere credibile e meno inquietante la storia.

Ma poi... poi arriva la seconda parte e il racconto prende un'altra dimensione. Quella dei possibili colpevoli alternativi.
E qui mi soffermo un attimo.
Cosa succede di solito in un giallo?
Si raccolgono prove che pian piano arrivano fino al colpevole. Semplice e scorrevole, possibilmente il più coerentemente possibile.
In questo romanzo, invece, sembra che Dicker si diverta a stravolgere la regola, a trovare i colpevoli, a scagionarli, ad insinuare di nuovo il dubbio ed ancora una volta affrettarsi a farlo cadere, per poi ammiccare ad altre possibilità. Ed ogni volta, o quasi, uno ci casca. E solo il controllare che alla fine mancano ancora un bel po' di pagine ci fa capire che c'è ancora dell'altro. Beh, non so a voi, ma a me non capita molto spesso. Di solito li fiuto abbastanza in fretta, i colpevoli.

Questo per quel che riguarda il romanzo giallo. Se non fosse che La verità sul caso Harry Quebert non è solo il racconto del caso, ma anche del libro sul caso e della sua storia editoriale. Ossia, il libro che il giovane Marcus scrive, uscendo dalla sua crisi e divenendo ancora più famoso di prima. Che poi è il libro che stiamo leggendo (ecco qua un altro piano del romanzo che confonde la finzione con il reale). E poi, c'è anche la storia artistica dell'altro scrittore, Harry Quebert, che a sua volta, alla fine, si macchia di giallo.

E tra tanti sviluppi, ci sono i trenta e uno
consigli per il giovane scrittore. Uno, in particolare, mi ha colpito per la sua verità:
Scrivere significa essere capace di percepire più profondamente degli altri e di trasmettere in seguito. Scrivere è permettere ai lettori di vedere ciò che a volte loro non possono vedere.
Ecco, anch'io credo, come Joël Dicker e Harry Quebert, che  lo scrittore sia colui che vede ciò che, pur guardando, non si riesce a percepire, per poi ri-raccontarlo in modo nuovo, affinché anche gli altri possano vedere ciò che lui ha visto per primo.

Per la mia tesi di laurea ho affrontato l'analisi di qualche fiaba di un poeta bulgato, Valeri Petrov. Lui mi ha mostrato con i suoi testi questa verità sugli scrittori e ogni volta che mi imbatto in discussioni insulse su definizioni o su motivazioni e scopi presunti dello scrivere, mi vieni in mente lui, la purezza del suo sguardo che sfoglia strati dalla realtà fino a trovare la sfumatura migliore. Per poi, grazie ad un atto che sembra naturale e leggero, ricreare quella sua visione con parole che sarebbero poesia anche senza la perfetta musicalità della metrica e della rima.
L'unico suo difetto: essere bulgaro e quindi non poter essere tradotto efficacemente in altre lingue. E siccome sono pochini i lettori in lingua bulgara, non nutro troppe speranze di vederlo acclamato come si merita.

Valeri Petrov e il suo invadente vicino di casa , all'ora del te.

Nonostante questo, mi sentivo di menzionarlo, di farlo diventare un po' meno ignoto almeno di nome, anche se non c'entra molto col poliziesco in genere e con La verità sul caso Harry Quebert in particolare.




giovedì 8 maggio 2014

Poe e Dumas: detective per caso



A volte capita di incontrare delle persone, magari anche note, di cui si conosce tutta la storia personale, o almeno si crede di conoscerla. Fino a quando non saltano fuori dei buchi che sfuggono al racconto della storia ufficiale.
Per quanto si cerchi tra documenti e testimonianze, la ricostruzione in quei casi rimane semplicemente una credibile verità tra le varie possibilità.

Ecco, nella vita di Edgar Allan Poe compare una parentesi di qualche anno, uno di questi insoliti misteri insoluti, su cui nulla si sa e molto si fantastica.

Trovato su Pinterest
Tra il 1827 e il 1832 Edgar Allan Poe scompare. Le ipotesi sono vaghe, con poche prove a sostegno. Qualcuno lo vede partito per l'Europa, e più esattamente in Russia, viste le sue “lettere spedite da San Pietroburgo”; altri lo vogliono in Grecia a combattere per la liberazione dai turchi. 
Sta di fatto che potrebbe anche aver soggiornato a Parigi, in quel periodo. E potrebbe anche aver incontrato il nostro Dumas Padre. 

Detto tra parentesi, è affascinante il modo in cui i protagonisti di questo blog continuino ad incontrarsi nelle situazioni più strampalate, vero? Pensate a Byron che finisce nel romanzo steampunk di Tim Powers The Anubis Gates, ad esempio. E Poe che finisce per essere ospitato da Dumas, 1832, anno più, anno meno.

No, non sto inventando, anche se non ci metterei la mano sul fuoco nel sostenere l'esattezza di una simile ipotesi.
Diciamo che ci sono un paio di prove indiziarie che farebbero pensare ad una frequentazione dei due.

Ok, facciamo un po' d'ordine.

Qualche tempo fa è stato ritrovato e ristampato un racconto di Dumas, comparso tra il dicembre del 1860 e il gennaio del 1861 su uno dei giornali che lo scrittore dirigeva, L'Indipendente. Il racconto si chiama L'assassinio di rue Saint-Roch. Apparentemente nulla di strano, se non fosse che il racconto ricalca quasi fedelmente la storia de I delitti della rue Morgue di Poe.
“L’assassinio di rue Saint-Roch”,
 Alexandre Dumas.

Un plagio?
Forse, conoscendo Dumas. O forse no. Dumas stesso ci informa nelle prime pagine del racconto che un certo Edgar Poe era stato suo ospite a Parigi nel 1832. Per una serie di amicizie comuni e appartenenze a società massoniche dallo scopo sovversivo, i due si ritrovarono in contatto e Dumas ospitò il giovane Poe in un paio di camere nella sua casa parigina in Rue de l’Ouest. Proprio in quel periodo, sfogliando le pagine della Gazzette des Tribunaux, i due capitarono su un articolo riguardante l'omicidio efferato di due donne e, affascinati dall'apparente insolubilità del caso, si dilettarono a risolverlo.

Affascinante, davvero affascinante ipotesi.

Anche perchè questa sua presenza a Parigi, e per di più seduto alla stessa scrivania di Dumas, potrebbe avvalorare ipotesi strampalate quali:
  • Possibile che Poe abbia davvero tratto ispirazione per il suo Ritratto Ovale dalla Monna Lisa e dal suo sguardo enigmatico (accennavo un vago pensiero qui)? Trovandosi a Parigi, vuoi che non abbia fatto una capatina al Louvre e ammirato la dama dal sorriso suadente?
  • Che abbia davvero dato un'occhiata alle care memorie di Peuchet da cui Dumas ha ripreso la storia del Conte di Montecristo, per poi fantasticare sul murare vivi amici e nemici come accade nel Barile di Ammontillado? (Anche questa ipotesi fantascientifica mi era balenata nel cervello tempo fa, qui).

Chi lo sa?

In ogni caso, per saperne di più sulla relazione tra Dumas e Poe e delle loro storie, leggetevi l'articolo di Luca Crovi Quando Dumas incontrò Poe.

Per il resto, leggetevi anche l'incontro dei due protagonisti ne I delitti della rue Morgue (ve lo dicevo, nello scorso post, di fare attenzione a quei pochi paragrafi che seguono l'introduzione, vero? Non ci vedete il bonario Dumas dall'ego irrefrenabile che parla dei suoi natali in disgrazia?), aggiungetevi un po' di fantasia e tutto funzionerà a dovere.
Io, da parte mia, ho già trovato la risposta al mistero. ; )



domenica 4 maggio 2014

Poe l'analitico



Dopo un'escursione tra futuri planetari e passati fumigosi, torniamo ad esplorare gli influssi e i generi nati dal genio di Edgar Allan Poe, vi va?

Giungiamo così a parlare di tre raccontini particolari per l'epoca: I delitti della rue Morgue (1841), Il mistero di Marie Rogêt (1842-43) e La lettera rubata (o scomparsa, come meglio vi suona - 1845).
A questi, infatti, si fa risalire tutta la corrente giallo-poliziesca, quella produzione, per dirla con Poe, che usa le facoltà analitiche dei propri protagonisti per risolvere casi all'apparenza insolubili.

Immagine ripresa da airshipdaily.com.
Ne I delitti della rue Morgue, l'autore, prima ancora di infilarci nella scena, ci spiega proprio in cosa si basa questa capacità analitica. Essa è una facoltà mentale che non si lascia analizzare, ma che piuttosto si lascia ammirare solo nei suoi effetti. Suo scopo è quello di "risolvere" e, nel far questo, dona una certa dose di piacere a colui che la esercita. In che ambito si può esercitare? Beh, nella settimana enigmistica, diremmo noi, nei rebus, dice Poe. E cosa è la scena di un crimine se non un rebus?

Continuando su questa via, Poe si diverte a fare dei paralleli tra il gioco degli scacchi e della dama, infilandoci anche il whist, gioco di carte a me completamente sconosciuto, fino a tirarne fuori dei principi. No, non principi del gioco, ma della capacità analitica. E adesso ve lo svelo io, qual'è l'arcano. Il segreto del buon spirito analitico (leggi detective) consiste nel sapere cosa osservare. Perché non solo i fatti strettamente pertinenti, ma anche quelli che non sembrano rilevanti possono apportare un contributo al gioco, che sia scacchi o whist o risoluzione del caso.

E a questo punto parte la storia. Siccome nel prossimo post affronteremo un piccolo enigma, e siccome non sta bene anticipare e magari guastare la sorpresa, vi dico solo di passare per la via Morgue e leggiucchiare i primi paragrafi susseguenti le speculazioni all'apparenza oziose dell'incipit. Tanto per rimarcare che il personaggio che parla in prima persona si trovava per caso a Parigi tra la primavera e l'estate di un certo anno 18... e che incontra un buffo francese, caduto in disgrazia, senza famiglia, che gli racconta ogni particolare della sua storia "con quel candore al quale si abbandonano i francesi quando parlano di se stessi."
Insomma, un signore di una certa cultura, un po' egocentrico, che adora raccontarsi. E adesso mi tappo la bocca, altrimenti tanto vale anticipare il prossimo post.

Illustrazione del 1853 per
The Mystery of Marie Rogêt, 
ripresa da Wikipedia.


Tornando ai tre racconti sopra citati, si sa per certo che almeno il secondo fa riferimento ad un delitto accaduto veramente a New York, nel 1841. Poe, basandosi esclusivamente su articoli di giornale, ricostruisce il "caso", svergogna la poca accuratezza dei giornalisti e risolve l'enigma. O meglio, il suo famoso Dupin, il protagonista del suo primo racconto poliziesco, dotato di forte spirito d'analisi, nato francese e residente parigino, lo risolve. E siccome Dupin non si era trasferito in America, per far quadrare i conti, geograficamente parlando, Poe cambia un po' nomi e luoghi del delitto, trasferendo il tutto a Parigi e trasformando Mary Cecilia Rogers, la vittima, nel suo doppio parigino Marie Rogêt.

Se andiamo a spulciare Wikipedia, come al solito troviamo informazioni stuzzicanti. Del tipo che non era opera rara romanzare un delitto. Ed infatti la stessa storia di Mary Cecilia Rogers fu poi tradotta in fiction da vari scrittori. A rendere la storia accattivante al punto di farne un soggetto d'arte non c'é solo la brutalità del caso. Tutta l'America conosceva già la giovane donna al momento del suo ritrovamento perché non era la prima volta che i giornali parlavano di lei. Già qualche anno prima la ragazza era scomparsa per poi riapparire dal nulla. Va da sé che una sua ulteriore scomparsa e, soprattutto, il ritrovamento del suo cadavere nel fiume, offrirono a più d'una penna l'occasione per scatenarsi.
Rispetto agli altri, in ogni caso, il metodo usato da Poe per sviluppare il suo racconto risulta innovativo, perché non ne esce fuori un racconto comune. Ed infatti, portando all'estremo la sua tecnica analitica, sembra quasi di essersi imbattuti nei resoconti di un'inchiesta. Non c'è romanzo o fiction o come vogliamo chiamarlo. C'è il caso, l'analisi dettagliata, la decostruzione di prove e teorie. C'è il detective che osserva e disseziona ogni indizio con una perizia sorprendente. C'è Sherlock Holmes, c'è Hercule Poirot, Miss Marple e tutti gli altri. E tra tanti, lui, Mr Dupin, è forse quello più in gamba, perché capace di risolvere davvero misteri insolubili ascrivibili alla mano di mostri reali.

Cercando qua e là qualche bella immagine, poi, ho trovato questo articolo su airshipdaily.com. Qui si racconta come Dupin, il detective di Poe, nasce ripudiando il genio di un altro detective, francese anche lui e realmente esistito: Eugene Vidocq.
Non vi nascondo che quasi quasi mi è venuta voglia di andarmele a cercare, queste Memoires di Vidocq, redatte, tra gli altri, anche da Dumas e Balzac.
Vedremo, vedremo cosa ne uscirà fuori.


giovedì 1 maggio 2014

Stacchetto metallaro



Come festeggiare meglio la festa dei lavoratori se non con un post elettrizzante e anche un po' autobiografico?
Eccolo qui, allora:


... : Perchè il nome Anubis Gate? Non sento molto l'influsso arabo, né altre referenze all'Egittologia nei vostri testi. - chiede l'intervistatore accorto (ma anche un po' ignorantello, diciamolo. E vattela a fare una ricerca su google sui tuoi intervistati! Risulta evidente l'imput da cui nasce il nome! Ma vabbè, lasciamo correre...)

Jesper (il chitarrista): Anubis gates è il titolo di un libro di fantascienza (outch! Ma non era uno dei capostipiti dello Steampunk?!!!) del romanziere Tim Powers. Avevamo bisogno di un nome, Torben (ex cantante) se ne uscì con qualche proposta e noi accettammo questa. Non ci sono diretti riferimenti all'Egitto nei testi. Ma la grafica e il layout ci stanno bene.*
(Intervista carpita su http://www.powerofmetal.dk/interviews/anubis_gate.htm)

Chi parla, o meglio, risponde è il chitarrista di un gruppo heavy metal/progressive danese che suona più o meno così:





Dai, non malissimo, no?

In ogni caso, non ho la più pallida idea se la trasposizione in musica dello steampunk - che pur esiste! - sia simile a questa o meno.

Ma sono sicura che voi mi perdonerete se non indago oltre sul soggetto, vero? ; )


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* A questo punto mi è venuta in mente una artista conoscente di amici. Invitati ad una sua mostra pittorica, apprezzando le forme e le combinazioni di colori, la domanda nasceva abbastanza spontanea: cosa rappresentava quel punto rosso onnipresente in tutti o quasi i suoi lavori, unico protagonista in uno scenario piuttosto neutro?
Ecco, ad una domanda così, che sicuramente salterà fuori in una o l'altra delle tue mostre/interviste&simili, devi saper dare una risposta d'effetto, ma davvero d'effetto. Devi persino mentire, pur di lasciare il segno. Uscirsene con un timido "il mio cuore" o, come nel caso dei metallari qui sopra, con un "dai, ci sta bene con la grafica, no?", ecco, vuol dire occhiate traverse tra il pubblico e risolini sotto i baffi.

Perdonami, artista dal nome ormai perso nei recessi della mia memoria zoppicante, se ho ripescato il tuo esempio. Spero che nel mentre tu abbia imparato a mentire spudoratamente almeno su quel puntino rosso.