sabato 8 novembre 2014

Christine: ieri e oggi



Ma cosa ci trovai in quel romanzetto dell'orrore che parla di macchine - argomento, diciamolo, di un soporifero... - e di scheletri al volante?
Di sicuro qualcosa di potente, se poi è riuscito a condizionare il mio destino di lettrice.
All'epoca non ero in grado di capirlo coscientemente. Mi rimaneva un odore, un sapore che ritrovavo immancabilmente in ogni opera di King, piacevolmente familiare.

E oggi?
Oggi lo rileggo con uno sguardo più critico, più istruito se vogliamo. Riesco a vederne i punti di forza, ma anche i punti deboli, quelli che mi fanno storcere un po' la bocca (e ce ne sono). A volte lo trovo superfluo nelle sue elugubrazioni, a volte poco coerente. Eppure, ancora una volta, mi piace immergermi nel mondo di Christine, mi ci sento a casa, con quello stesso odore e sapore. E ancora mi è difficile definire da cosa questa sensazione prenda forma.

Difficile, ma forse non impossibile.


Da dove viene, ad esempio, questa familiarità?
L'ambiente descritto non è un ambiente particolarmente vicino alla mia esperienza personale, ma neanche lontano. Ci troviamo a contatto con persone normali, che vivono in residenze normali, con rapporti normali e problemi assolutamente normali, almeno fino ad un certo punto. Eppure c'è qualcosa di avvolgente e intricante che potenzia l'identificazione del lettore con i personaggi. Forse è quel modo di raccontare e mostrare dettagli che danno subito l'idea non tanto della situazione o dei caratteri, ma dei rapporti tra di loro.

Ad esempio: Arnie, il ragazzetto sfigato che acquista la macchina infernale, ci viene descritto da Dennis, il suo migliore amico. Cosa dice di lui? Ok, è bruttino e suscita un desiderio inconscio di prenderlo a sberle. Però, è anche uno in gamba, perché sa sempre cosa fare nelle giornate di pioggia, quelle in cui ti toccava stare a casa. E sa come costruire un formicaio, gioco che ha entusiasmato una loro estate intera. Questi dettagli ti fanno vedere non solo l'ingegno apprezzabile del nerd, ma anche la sua solitudine: niente giochi all'aperto con i ragazzini del quartiere, niente partite di baseball, niente gruppo. Solo Arnie e Dennis.
Dietro, come uno spettro, vediamo la famiglia di Arnie: cortese ma freddina, contenta di un figlio che non crea problemi e che crede che la figura di Dennis, da sola, supplisca ampiamente al bisogno di amicizie del figlio. Ma anche questo, almeno fino ad un certo punto, lo intuiamo, per poi averne conferma quando anche i genitori di Arnie acquistano una voce e si fanno conoscere attraverso il loro solito metodo: raccontando le loro relazioni, le loro esperienze.

Dall'altra parte c'è Dennis, descritto attraverso i battibecchi doverosi che ogni fratello maggiore ha con la sorellina minore, una mamma che per hobby gioca a fare la scrittrice, sostenuta dalla famiglia, anche se padre e figlio non possono fare a meno di ridacchiare tra loro delle storie che scrive, e un padre che agli occhi di un Dennis adolescente inizia per la prima volta a mostrare i segni di una vecchiaia incalzante. Quanti adolescenti hanno vissuto una simile epifania? O un simile rapporto di odio-amore con il fratellino minore? O di complicità segreta con uno dei genitori a discapito dell'altro?
Tutti questi dettagli, tutto questo raccontare di rapporti più che di singole persone, tutto questo rende i personaggi estremamente vividi, familiari.

Poi arriva l'evento fatale che distrugge gli equilibri. E ancora una volta, alla descrizione dei fatti viene sempre aggiunta quella dei rapporti tra i personaggi primari e secondari, attraverso ricordi e racconti di eventi passati. Così scopriamo il loro carattere non attraverso il modo in cui si comportano adesso, ma attraverso ciò che hanno vissuto o che sognano o che altri raccontano di loro, che siano personaggi positivi o negativi. Naturalmente, questo li avvicina al lettore che inevitabilmente si affeziona. L'unico che veramente non ha la possibilità di raccontarsi è il cattivissimo, il primo proprietario della macchina posseduta , forse perché il Male fa davvero terrore solo fin quando resta assoluto. Se ci infiliamo l'umanità, diventa comprensibile e, quindi, meno terrorizzante.

Ora, c'è un altro punto che per anni io stessa mi sono intestardita a professare: King ha belle idee, peccato per il suo modo di scrivere...

Ma scrive poi così male?

Prendiamo un esempio:
"I only hope it works that way," she said, and put her head on my chest. I touched her hair.
 "Spero solo che funzioni," disse lei, posando la sua testa sul mio petto. Le toccai i capelli.
Ok, due frasi freddine, rigide.
Un romanzo fatto tutto così mi farebbe rabbrividire, anche se non di paura.
Ma il fatto è questo: Christine non è affatto tutta così. Queste due frasi vengono messe lì come chiusura ad un capitolo in cui avviene poco e niente di sostanziale: assistiamo alla preparazione allo scontro finale. Ma a livello emotivo, questo stesso capitolo è un turbinio di sensazioni: terrore, dolore fisico, senso si colpa, bisogno di conforto, ansia, tristezza, tenerezza. E nel momento in cui tutto è pronto e non ci resta che aspettare, la staticità dello stile di queste due ultime righe rafforza il contrasto tra l'immobilità dell'attesa e il turbinio emotivo descritto fino a poche righe prima, mentre un senso di inevitabilità prende forma nell'ombra.

Tutto sommato, troppo scarso non sembra, vero? Ma, del resto, se King è così famoso e migliaia di aspiranti scrittori leggono il suo On writing in cerca di una guida, un motivo ci sarà.

Di certo questo non basta a spiegare la mia fascinazione di allora. Probabilmente il fatto di essere stata una lettrice giovane e inesperta ha enfatizzato molti dei punti di forza del romanzo, lasciandone magari in ombra i difetti. Eppure mi fa piacere, a distanza di anni, rendermi conto che, tutto sommato, le sensazioni che avevo provato allora sono sopravvissute alla prova del tempo.

Qualcosa mi dice che non tutte le letture che all'epoca trovai interessanti potrebbero reggere ad una simile prova del fuoco.


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