venerdì 31 ottobre 2014

La Lista



A questo post è da un pochino che penso: da quando ho letto questo della Clarina. E, per essere più precisi, da quando ho sbirciato ai commenti che sono seguiti.

In poche parole, parliamo di liste.

mondeautochtone.blogspot.sg
Io ho un doppio istinto verso le liste: da una parte le rigetto.
Prendi le liste tipo: i cento libri che devi leggere prima di morire. Un bravo lettore incuriosito osserva la lista con mille aspettative, segue i titoli con fiduciosa creduloneria (mi daranno delle letture mozzafiato, non come le mille ciofeche che trovo sui primi scaffali delle librerie) e, nel miglior caso, ne riconosci la metà, ne hai letti la metà della metà della metà e ti dici che, tutto sommato, avresti anche potuto fare a meno di leggerli, perché così fondamentali, per te, non lo sono stati.

Oppure: le dieci cose che devi sapere per diventare un buon lettore/scrittore/narratore, eccetera eccetera. Leggi i punti con attenzione e scopri che sono sempre i soliti luoghi comuni.

Nonostante questo, capita che in determinati momenti della mia esistenza io senta il bisogno di aggrapparmi alle liste, specialmente quelle che iniziano con i numeretti belli chiari seguiti da un trattino o puntino e che continuano fino ad un massimo di... diciamo dieci. Non meno di cinque, non oltre i dieci. Sì, liste essenziali e ordinate, perché la lista, almeno per me, è l'occasione di gettare via gli abiti chiusi ad ammuffire nell'armadio e cominciare a fare le valigie per il prossimo viaggio. E siccome io viaggio sempre con valigie leggere, anche i miei punti lo devono essere.

Questo non vuol dire che poi non mi piaccia andare a leggere le didascalie tra i punti. Mi piace, anzi, capire da dove prende forza l'indispensabilità dei vari numeretti.

Questa la premessa. E, se due più due fa quattro, ormai si è capito cosa seguirà.

Ma UNA LISTA, naturalmente!

Eggià, anch'io frego la solita vecchia idea che probabilmente gira per il mondo da... beh, almeno tanto tempo quanto le catene di sant'Antonio; e, per fare le cose fatte in grande, non mi limito a riportare il numeretto e il titolo del libro, ma ci faccio una piccola rubrica, tipo quella delle Reading in Progress.
Cosa ci troverete dentro? Dai, non facciamo gli ingenui: le opere che mi hanno segnata. Le impressioni o le spinte che mi hanno dato allora, quando per la prima volta le ho incontrate, ma anche le considerazioni che adesso, a distanza di anni e dopo attenta rilettura, mi scatenano.

Prima di iniziare, però, qualche avvertenza:
  • promessa solenne: nessuno dei titoli che comparirà in questo spazietto sarà uno show-off. Niente cose del tipo: "Modestia a parte, all'età di 12 anni ho letto Delitto e castigo e l'ho trovato grandioso". Banditi, quindi, tutti quei testi che un lettore di buon gusto DEVE leggere in favore di quelli che sono stati realmente illuminanti, anche per vie traverse. I miei non sono stati tanti, vi avverto, e non sono nemmeno illustri. Ma, del resto, non tutti i lettori sono capaci di essere folgorati dalla grande letteratura...
  • Visto che siamo capitati in pieno Halloween, il primo romanzo della lista avrà un sentore in tema. Non è il primo in ordine cronologico ad essere stato letto e va da sé che neanche i prossimi rispetteranno una consecutio temporum sensata.Tutto avverrà sull'impulso del momento.
E... ehm... beh, mi sembra tutto. Un po' misera come prima lista, vero?
Ma non ci abbattiamo subito, vediamo come procederà quella vera e propria.



lunedì 27 ottobre 2014

Stacchetto gucciniano



Oggi lo stacchetto sarà fulmineo.




Guccini non è mai stato uno dei miei preferiti. Ma come rimanere impassibile davanti a questa? Questa canzone, anche lei una fiction in miniatura, a suo modo, rappresenta nella sua brevità tutto un periodo dalle mille sfaccettature, ognuna di esse raccontata a dovere. E il tutto in 5 minuti!

Cosa dire di più?

Buon ascolto.

 

giovedì 23 ottobre 2014

Quando l'opera si affaccia sulla storia



Possiamo dirlo con leggerezza?
Quando l'opera si appropria della storia, di solito, fa un gran casotto!

Ma l'opera di per sé è una forma d'arte contorta, spesso tronca, se vogliamo. Sì, perché non è solo componimento musicale, non è solo recitazione scenica e non è solo espressione lirica. È tutto questo e nel tentativo di esserlo, non raggiunge la perfezione in nessuno di questi generi. Il testo è piegato alla musica, la composizione alla scena, la voce costretta a seguire le contorsioni di pose teatrali e, viceversa, la recitazione costretta a inseguire scale di impensabili altezze.

Questo non vuol dire che l'opera non raggiunga dei sublimi traguardi o che non sia degna di ammirazione profonda. Al contrario!
Vuol solo dire che, anche quando essa riesce a mescolare al meglio le sue componenti fino a farle divenire un tutto organico di notevole valore, l'una o l'altra di queste ultime, se non tutte, devono pagare un prezzo a favore dell'insieme.

Mettiamo, ad esempio, la storia vera raccontata a suon di arie.
Prendiamo un'opera a caso, I Goti di Stefano Gobatti, libretto di S. Interdonato, e seguiamone la storia che, guardacaso, ricalca quella in cui ultimamente ci siamo imbattuti: la storia dei Goti.

Confrontiamo, poi, le due storie: quella vera e quella rimanipolata.

All'indomani della morte di Teodorico il grande, il barbaro che ha trascinato tutto il popolo dei Goti in Italia e che ha regnato su italiani e goti per una trentina d'anni con sapienza e onore, si pone un piccolo problema di successione: il nipote Atalarico, erede legittimo, è ancora un bambino. Diventa re, come è giusto che sia, ma gli viene assegnato un reggente fino alla maggiore età: sua madre Amalasunta.

Atalarico non era tagliato per diventare un gran re. Un po' ci si mettono i maggiorenti goti che non amano molto le idee filo-romane della regina e che, quindi, trovano il modo di sottrarre il fanciullo all'educazione classica che gli voleva impartire Amalasunta in favore di una più guerriera. Un po' ci si mette il carattere fiacchetto del ragazzo che si lascia ben volentieri educare secondo i principi delle rozze soldatesche: eccessi, eccessi e ancora eccessi. Fatto sta che, ancor prima di raggiungere l'età per reclamare il regno, Atalarico muore proprio a causa degli eccessi.

A questo punto, la regina Amalasunta si trova in difficoltà. Prima di tutto perché gli usi dei goti parlano chiaro: donne, al trono, non possono andarci. E lei sa che qualunque dei nobili Goti una volta salito al trono, avvierebbe una politica contraria a quella portata avanti da suo padre prima e da lei dopo, quella che creava prosperità nel paese grazie ad una politica di uguaglianza, non di oppressione, tra popolo goto e popolo romano.

Insomma, Amalasunta teme. Per evitare di essere destituita, associa al regno un suo cugino, un certo Teodato. Uomo colto ed eccessivamente avaro, pavido e ignorante di cose di guerra, questo nuovo re gioca sporco e nonostante i giuramenti di non interferenza con le cose politiche, lui ci mette il naso, diventa avido di potere e fa imprigionare la regina. Poi arrivano i nobili che chiedono vendetta per spargimenti di sangue di loro parenti avvenuti in precedenza per ordine della stessa Amalasunta e Teodato lascia fare. Amalasunta viene uccisa per vendetta e Giustiniano, imperatore d'Oriente che si poneva a protettore della regina, prende la palla al balzo e dichiara guerra ai traditori della famiglia dei reali goti. Inizia la guerra.

Questi gli eventi raccontati liberamente ne I Goti. Anzi, no, sarebbe più corretto dire rivisti. Perché d'un tratto i tempi dell'opera concentrano i tempi storici in un vortice rocambolesco di eventi semi-veri.

Così assistiamo alle trame di Teodato per assassinare Atalarico, fatto completamente di fantasia. Le scene si aprono proprio con l'assassinio del re e la dichiarazione sfacciata da parte di Teodato di voler salire al trono e vendicarsi di anni e anni di maltrattamenti, anche questa cosa che non trova fondamento nella storia reale. Arriva la regina Amalasunta, innamorata e ricambiata da un romano di rango non proprio paritario, che però è costretta ad acconsentire al matrimonio con Teodato, l'infido. Matrimonio che non può aspettare se non il giorno seguente.

Insomma, per farla breve: Amalasunta, col cuore spezzato, cede alle ragioni di stato, sposa Teodato mentre piange la morte del suo adorato figlio e la separazione dall'amante romano. Poi viene tradotta nel luogo di prigionia e impazzisce. Arriva il suo amante che tenta di liberla ma, come è giusto che sia, entrambi muoiono felici e contenti. E tutto questo dopo una tonnellata di presagi e visioni, che non guastano mai.

Io non sono riuscita a vedere l'opera. Ho solo letto il libretto e già lì, oltre ad echi di eco risalenti ad esempi più illustri, mi sono sentita un pochino in imbarazzo. Ma questo sicuramente è perché, come dicevo sopra, non si può giudicare un'opera dal solo libretto, ossia da una sola delle sue componenti.
Però, poi, leggendo i commenti sul web, mi è venuto il dubbio che anche il resto non sia proprio valevole di nota.

Se volete conoscere la storia de I goti, che io trovo anche buffa e che all'epoca (1873) fece molto rumore a causa di una serie di disguidi, andate a leggervi www.operamanager.it.

Per il resto, si avvicina Halloween. E, anche se è festa pagana, l'atmosfera che porta con sé eccita la voglia di altre letture...

Ma prima uno stacchetto musicale, uno di quelli che ci sta sempre bene.


domenica 19 ottobre 2014

Quando il self publishing si appropria della storia



Vi avevo già detto che i romanzi che trattano del periodo subito susseguente la deposizione dell'ultimo imperatore romano d'Occidente sono davvero pochi, vero?

Provate, provate a vedere con i vostri occhi. Andate su Amazon e digitate una qualsiasi parola che abbia a che fare con Goti, Teodoro, Giustiniano o uno degli altri protagonisti dell'epoca.

Lo sapevo, lo avete trovato anche voi, vero? Quel I Cavalieri del Crepuscolo (2013) di Marco Cristini.

Sì, parla dell'Italia durante il 500. E, come avrete intuito, è un romanzo auto-pubblicato.

Ecco, questo è il primo di quella nuova orda si romanzi senza padrini che popola ormai il web che mi capita sottomano. O meglio, no, non è il primo, se consideriamo quello di Chiara Prezzavento, L'itala Giuditta. Ma è senz'altro il primo che risponde ai miei dubbi riguardo alla bontà dell'uso e dell'abuso dell'auto-pubblicazione.

Perché uno scrittore non dovrebbe scrivere, correggere e pubblicare la propria storia da solo? Perché c'è il rischio di fregarsi con le proprie mani.

Ma aspettate, andiamo con calma.
Anche per voi è la prima volta che vi imbattete in un self-publishing di non professionisti? No, non acquistate il libro per capire di cosa parlo, ma continuate a leggere.

Siamo in un'Italia che solo da pochi anni è stata conquistata dai Longobardi. Per chi non lo ricordasse, dopo la guerra tra impero bizantino e goti, l'Italia cade sotto il dominio romano. Ma la pace dura ben poco perché, appena una quindicina di anni dopo la morte dell'ultimo re goto, arrivano i Longobardi. E questi sì che erano barbari!
Succede che proprio in questo periodo il sacerdote di una piccola comunità non meglio specificata si decide a scrivere la storia delle vicissitudini di una coppia di sposi, così, a carattere esemplare. Lui stesso in prima persona ci dice che le sue fonti sono state due manoscritti capitatigli tra le mani per caso: Chronica Amalasuntae reginae di Cassiodoro e De vita mea di Iulio Valerio Pupieno. Emtrambi i manoscritti sono fittizi. Ma se l'esistenza del primo potrebbe passare per credibile (Cassiodoro è stato davvero un personaggio storico molto vicino alla corte dei Goti e ad Amalasunta, loro regina), l'altro, quello che nelle intenzioni dell'autore dovrebbe rappresentare una sorta di diario intimo, non suona proprio "giusto". In epoca tardo romana, un diario che racconta non guerre o dissertazioni filosofiche o auto-celebrative, ma vicende amorose di due privati cittadini e che non si rivolge ad altri che ad una cerchia più che ristretta di parenti e conoscenti?
Mmmm...

Ma andiamo oltre e facciamo finta di niente. Sorvoliamo anche sul linguaggio eccessivamente sbrodoloso che il sacerdote impiega per osannare ogni tre linee la bontà del Signore (e qui bastava leggersi Gregorio magno con i suoi Dialoghi anche solo di sfuggita per rendersi conto di quanto un tale modo ossequioso sia un po' fuori luogo) e passiamo alle considerazioni narrative in cui lo stesso sacerdote, umile e pio, si imbatte.

"Come posso esporre il mio scritto?" si chiede fin da subito. "Che faccio, descrivo la storia della calata dei Goti, da cui tutto è iniziato? Ma no, sicuramente il mio lettore la conosce. E se non la conosce, ci sono tanti testi a cui poter fare riferimento."
Davvero???
Ehm... Sinceramente no, non credo. Perché, a parte la tradizione orale degli stessi Goti che raccontavano le loro imprese e discendenze, all'epoca c'era solo una storia scritta da Cassiodoro su tale popolo (origine, spostamenti e calata in Italia) e  sicuramente non veniva divulgata come lettura domenicale nelle piazze o nelle chiese. E poi, parliamoci chiaro, ma quante copie potevano esserci in circolazione? Di sicuro il lettore della sua storia (lettore! Suona così anacronistico l'uso di questo termine, qui) non avrebbe potuto procurarsi su due piedi un simile manoscritto.

"Oppure," aggiunge il sacerdote narratore, "potrei descrivere i personaggi, tanto per iniziare. Ma così tolgo al lettore il gusto di scoprirli pian piano, cosa che personalmente ritengo essere lo stimolo che spinge l'uomo a leggere qualsiasi opera letteraria."
E come darti torto, prete di campagna? Questo è lo stimolo che spinge ogni lettore MODERNO a leggere. Ma al tempo dei barbari?
Al tempo dei Dialoghi di Gregorio Magno o delle Guerre di Procopio, siamo sicuri che il lettore leggesse davvero solo per il gusto di leggere? E, visto che molto probabilmente lo faceva per dovere, studio o elevazione, siamo sicuri che non trovassero più comodo avere davanti a sé una struttura narrativa lineare e, se vogliamo, pragmaticamente noiosa? Onestamente, questa in cui si impelaga il narratore mi sembra tutta una questione, ancora una volta, anacronistica.

Diciamocelo chiaro e tondo, questa prima paginetta ha tutta l'aria di un manifesto delle intenzioni dello scrittore, non del narratore. Ed ecco che, allora, inizio ad avvertire un senso di vertigine: vedo doppio, l'autore e il narratore si confondono, gli spazi temporali dilatati cercano di riavvicinarsi sfidando ogni legge della natura, i lettori di riferimento e quelli reali si sovrappongono e io dubito: varrà la pena di leggermi un volume che si prospetta avere il doppio di pagine rispetto alla media e che parte in questo modo?

Ma poi uno si dice: siamo appena all'inizio dell'inizio, dagli un'altra possibilità. E ricordati! Parla della storia dei Goti...
Ok, seguitiamo, allora.

Ed ecco qua, nemmeno il tempo di riprendere coraggio che ci imbattiamo in una ripresa a volo d'uccello (non ripeterò qui che un narratore medievale se la sognava la ripresa a volo d'uccello come espediente narrativo, ma fate come se lo avessi detto): un gabbiano che, con perizia di archeologo, ti conta pure gli anni  che sono passati dall'ultima volta che il molo su cui svolazza è stato usato. Dopo una relativamente breve descrizione, ti inquadra due figure che chiacchierano tra loro e, anche se per ammissione dello stesso narratore il povero "pennuto" non poteva capirci un granché del loro dialogo, lui continua a farsi gli affari loro. A questo punto tocca al narratore riferire: un tizio corre sul molo verso un altro tizio che prega ai piedi di una statua raffigurante la Madonna. Il primo dice al secondo che gli dispiace disturbarlo mentre è in preghiera (ridiciamolo, in caso il lettore non lo avesse intuito, che l'uomo sul molo pregava), ma è appena arrivata una missiva importante dal palazzo reale. È la principessa in persona a scrivergli. "La lettera, infatti, non solo era ornata dal sigillo della figlia del re, cosa normale per la corrispondenza ufficiale, ma era stata scritta dalla stessa Amalasunta, come si poteva dedurre dalla calligrafia che Cassiodoro (il tizio in preghiera) conosceva molto bene."
Solo a me suona male?
Ma non abbiamo tempo di contemplare oltre la frase contorta. Ecco rifar capolino sulla nostra testa l'uccellaccio archeologo che, prima di far ritorno alle sue "ataviche attività", "avrebbe potuto scorgere, mentre le due figure si allontanavano, un raggio di sole nascente illuminare la statua e cospargerla di riflessi dorati."

Ok, a questo punto la mettiamo ai voti: quanti pensano che valga la pena di continuare questa lettura?



mercoledì 15 ottobre 2014

Quando la fiction si occupa della storia


Non so voi, ma io provo una particolare attrazione per i romanzi storici. Adoro andarmi a ricercare la vera vita dei personaggi per poi confrontarla con quella descritta dall'opera di fantasia. E più sono corrispondenti, più mi esaltano.
Certo, non dico che i romanzi storici debbano essere solo racconto storico, altrimenti mi butterei senza remore verso saggi e manuali di storia. Nonostante questo, se in uno di essi trovo delle incongruenze o delle inesattezze, ecco che un senso di disappunto mi assale. Almeno fino a quando lo scrittore non riesce a giustificare pienamente il perché di quella inesattezza.

Data la premessa, comprenderete perfettamente il mio spirito nell'approcciare Citadel of God (1959) di Louis de Wohl, tanto più sapendo che il periodo storico di cui si parla mi è abbastanza familiare. Sì, perché la cittadella menzionata è quella fondata da San Benedetto a Montecassino. E il periodo storico raccontato è quello del regno di Teodorico fino a Totila, pieno 500, guerre gotiche incluse. Solo per il fatto di essere uno dei pochi su quel periodo, questo romanzo va letto, no?

Quindi, se da una parte mi aspettavo grandi cose, almeno tante quante la storia ci racconta, dall'altra avanzavo nella lettura con quel fare sul chi-va-là, timorosa che prima o poi ci sarebbe scappata la scivolata.

Che cosa ho trovato?

Ho trovato un dipinto storico molto fedele. E quando non lo è, il motivo è ben chiaro e argomentato e quindi perdonato e accettato di buon grado. Ma, d'altro canto, a volte risulta talmente fedele alla vera storia che sembra quasi raccontata da qualcun altro. Da uno storico, ad esempio. Da Hodgkin, se vogliamo proprio dirla tutta. No, non che riprenda pari pari le sue parole, ma il filo della storia e alcune notizie fondamentali per far avanzare il tutto sembrano proprio seguire le suggestioni di Hodgkin.

Ho trovato anche un bisogno ingiustificato di raccontare usi e costumi che per un appassionato o un curioso possono avere un loro perché, ma per un lettore comune rendono solo più lenta la lettura.
Un esempio?
C'è un gruppetto di romani altolocati che si raduna in casa di un senatore, il più nobile e colto tra loro. Naturalmente durante l'incontro non mancano fiumi di vino a rallegrare le loro elucubrazioni. Ora, ad un lettore medio cosa interessa sapere che l'uso dei romani in simili occasioni era avere tre diversi vini serviti in tre diverse brocche più la brocca dell'acqua (con tanto di nomi dei vini!)? A me diverte il particolare se abilmente infilato con a seguito una ragione, una battuta, qualcosa che ne giustifichi la presenza, ma lì per lì non è venuto in soccorso nemmeno un pretesto che non fosse il puro piacere di raccontare particolarità d'altri tempi e il sospetto di trovarmi davanti ad uno di quei pedanti antiquari che provano piacere nel rimpinzare di più o meno inutili nozioni l'ascoltatore fortuito mi ha assalito. Per fortuna, ho dovuto ricredermi non troppo oltre. Infatti con l'avanzare dell'azione gli sprazzi antiquari scemano e il senso di utilità del narrato rende merito alle curiosità che ci vengono raccontate.

Ma, devo ammetterlo, in cammino ho trovato colpe ben maggiori: il carattere dei personaggi. A volte risultano proprio insulsi. Non che non abbiano le loro motivazioni. Quelle ci sono e, raccontate in un riassunto, avrebbero anche un loro potenziale. Ma quando poi vengono sviluppate... beh... diciamo che si poteva fare meglio. Al pari dei loro caratteri sono i loro dialoghi. Non c'è un minimo di giudizio nello spiattellare verità che forse dovevano essere tenute nascoste almeno per un altro po', nell'attesa di trovare il climax giusto. E la risposta a queste rivelazioni non è mai consona alla loro portata.
Uno si chiede, ad esempio, che gli dice il cervello ad un uomo che, tornando dopo anni di assenza nella casa della donna e dell'uomo che lo hanno accolto e cresciuto come uno di famiglia, come prima cosa saluta la donna e le rivela che la ama senza nessuna sorta o quasi di preambolo. E lei? Che fa? Nulla. Davanti alla passione del tizio non si scompone minimamente. Anzi, quando anche il marito, amato e rispettato, entra in scena, lei è più serena e vaga che mai.

Allora, direte voi, cosa resta di bello del romanzo?

Resta san Benedetto, il vero soggetto di cui l'autore voleva parlare. Sì, perché nonostante l'accurata ricostruzione, le trame parallele dei personaggi più o meno storici, i racconti di guerra, ossia nonostante i due terzi del romanzo, è chiaro che l'unica cosa che stava a cuore a Louis de Wohl era raccontare la storia di san Benedetto. "Bella scoperta", direte voi, "C'è scritto pure in copertina!" E avete ragione, anche se poi, come ho detto, la parte dedicata veramente al santo è minore rispetto a quella dell'inquadramento storico e delle storie parallele.
E adesso ammettiamolo: Wohl è davvero bravo nel caratterizzare il personaggio di san Benedetto. Riesce così bene a trasmettere la purezza, la passione, la statura spirituale e morale dell'uomo che ha segnato la storia della Chiesa (e non solo) che si riescono persino a dimenticare tutti i difetti elencati più sopra.

Ecco, se si potesse modificare un pochino tutto il resto e lasciare solo san Benedetto intatto, così come Wohl lo ha raccontato, questa sarebbe una delle letture più coinvolgenti ed emozionanti (per non dire commoventi) in cui io mi sia mai imbattuta. Così come è adesso, la potrei definire una lettura a tratti piacevole, con molti spunti interessanti e informazioni riguardo a un periodo storico - e un santo - di cui poco si conosce.

De Wohl ha scritto di altri uomini di Dio e altri periodi. Chissà, magari prima o poi lo incontreremo di nuovo parlando di altra storia o altri santi. Anche perché dalle recensioni che ci sono in giro, molti sembrano considerare Citadel of God come una delle sue opere meno appassionanti. Vedremo...


sabato 11 ottobre 2014

Stacchetto ravennate


Ci sarebbero così tante curiosità da raccontare intorno alle guerre descritte da Procopio, o alla corte di Giustiniano, o all'esercito romano dell'epoca...
C'è solo l'imbarazzo della scelta e tra questa scelta io mi sento davvero in difficoltà, perché non so proprio cosa proporvi.

E allora, che ne dite di dare una sbirciata ai mosaici di San Vitale?

San Vitale si trova a Ravenna, quella che all'epoca del regno di Teodorico, re dei Goti, era la capitale. In verità, già dal 404 l'imperatore Onorio vi aveva trasferito il centro di potere e i suoi successori romani e barbarici avevano continuato a risiedervi, evidentemente soddisfatti della sua posizione strategica. Solo quando durante la guerra gotica i bizantini si appropriarono della città, i goti si trovarono costretti a scegliere un'altra capitale. La scelta cadde su Pavia e tale resterà anche per il regno dei Longobardi, i prossimi sulla lista degli invasori a calare giù da noi. O i secondi, se consideriamo i greci invasori. E io lo farei, visto il modo in cui la popolazione e le terre italiane, indipendentemente dalla loro etnia d'origine, furono trattate.

Ma, per tornare a Ravenna, qui, tra il 525 e il 547, ossia tra il regno di Teodorico e gli anni di guerra, fu costruita San Vitale, una chiesa di rito cattolico che ancora oggi è famosa per i suoi mosaici.

Esterno di San Vitale, Ravenna. Immagine di Wikipedia



La sua pianta è particolare, ricorda le chiese bizantine e il suo interno... beh, mozzafiato.


Qui si trovano anche i famosi mosaici di Giustiniano e Teodora che ho postato qualche tempo fa.

Io ci sono capitata tanti anni fa, quasi per sbaglio. Inutile dire che all'epoca non mi interessava affatto la storia di imperatori e re e tanto meno di barbari e romani. Eppure i mosaici di Giustiniano ancora me li ricordo vividi.

Se, quindi, vi capita di passare da quelle parti, non vi perdete questa chiesetta. E, visto che ci siete, fatevi un giro anche verso Sant'Apollinare Nuovo, in cui c'è il mosaico del palazzo di Teodorico (in ogni arcata comparivano i maggiorenti goti che all'arrivo del nuovo conquistatore romano sono stati sostituiti con i drappi);

Il palazzo di Teodorico, Ravenna. Immagine da lastoriaviva.it

e non perdetevi il mausoleo di Teodorico, opera che forse rappresenta meglio l'intento di Teodorico il grande: quello di far convivere l'elemento romano e quello gotico in un unico luogo.


Buon tour!


martedì 7 ottobre 2014

La storia degli storici

E cosa succede quando, allontanandosi dalle testimonianze di prima mano, ci si ritrova secoli e secoli lontani a studiare quegli stessi avvenimenti, ma raccontati da intermediari?

Ci si ritrova sui banchi di scuola, a sfogliare manuali di storia incapaci di divulgare se non poche e superficiali notiziole. Se si è fortunati, di tanto in tanto, tra le date senza senso e i riassunti striminziti, ci si imbatte in notizie stuzzicanti che per un attimo ti fanno intravedere cosa potrebbe nascondersi dietro al piattume delle informazioni standardizzate. Per me, tanto tempo fa, è stato il riferimento all'assassinio di una regina gota per mano di un suo cugino associato al trono a farmi scivolare tra barbari illuminati e romani in decadenza. La storia, naturalmente, si è rivelata un po' più complicata di quello che in una lettura superficiale poteva apparire. Da lì sono arrivata alla cronaca di Procopio, ma anche a storici più moderni che mi hanno raccontato quella stessa storia da un punto di vista diverso: quello dello studioso cresciuto a 1500 anni di distanza, con una gran quantità di fonti a disposizione e sguardo storico del tutto diverso da quello dei contemporanei.

E tuttavia, devo ammettere che i grandi studiosi contemporanei che mi parlano del periodo menzionato non mi dicono, in realtà, molto. Non a caso, una delle mie letture preferite al riguardo è un po' vecchiotta. 

Thomas Hodgkin (1831-1913). Da Wikipedia
Thomas Hodgkin, storico inglese che ha scritto Italy and her Invaders (Oxford, 1880–1899) in otto volumi, si può definire, forse, storico della vecchia scuola. Il quarto volume della sua immensa opera è dedicato proprio alle guerre gotiche. Ed è questa che mi diverto a sfogliare a tempo perso.

La cosa che mi ha affascinato di lui è stata l'accuratezza della narrazione, ripresa direttamente alla fonte. Perché Hodgkin racconta fedelmente il racconto che Procopio fa della guerra, quasi fosse una traduzione, e lo amplia in mille modi diversi. Prima di tutto, usando altre fonti non solo contemporanee agli eventi narrati. Così vediamo la stessa storia guardata da diverse prospettive, anche se poi il punto di vista principale è quello di Procopio.
Tuttavia, Procopio non sempre è in grado di esaudire tutte le nostre curiosità, un po' perché dà per scontato che il lettore dell'epoca non avesse bisogno di tante spiegazioni o descrizioni, un po' perché forse lui non vedeva interesse in quello che a noi affascina di più. A questo rimedia lui, Hodgkin, infilandoci un sacco di  informazioni riguardanti... beh... un po' tutto. Dalla storia degli acquedotti romani, quelli che proprio in questo periodo vengono tagliati e mai più riportati al vecchio splendore, ai luoghi e ai costumi di tutta una penisola italica così come doveva apparire nel VI secolo: tanti dettagli che stuzzicano la fantasia, oltre che la curiosità.

Hodgkin non si limita a organizzare il racconto delle varie fonti. Lui congettura, o riporta congetture di altri studiosi, e così facendo, illumina la vita dei popoli del tempo. E si spinge anche oltre! Perché la sua grande cultura gli permette di spaziare e collegare eventi storici anche lontanissimi, come anche di rendere vivide conoscenze archeologiche che illuminano dinamiche di guerra ormai completamente ignote.
E se non bastasse, Hodgkin ci mette anche un po' di fantasia. Una fantasia sempre tenuta a freno dal rigore dello storico, ma che rende le nozioni estremamente piacevoli da scorrere e percorrere. Un esempio stupendo è la passeggiata che immagina fare a Procopio per le strade di Roma, all'indomani dell'ingresso dell'esercito romano nelle mura. Qui diveniamo diretti spettatori, passeggiamo con Procopio e ammiriamo con lui le magnificenze di una Roma ancora grandiosa, ma già pesantemente in declino. E per chi la conosce così come è adesso, a distanza di 1500 anni, questo tuffo in un passato a malapena intuibile costituisce da solo un divertimento tutto particolare. Sì, perché leggendo la storia raccontata da Hodgkin ci si diverte, quasi si stesse leggendo un romanzo storico.

La storia, allora, può essere raccontata quasi come una fiction, pur rimanendo estremamente fedele alle fonti. Bisogna saperlo fare, certo. E solo chi la ama veramente, secondo me, riesce nell'intento. Hodgkin, si vede fin dalle prime righe, aveva una passione infinita per la storia e una dote rara: quella di saperla trasmettere.

Siccome Hodgkin si trova gratis su Amazon, io vi consiglierei di darci un'occhiata. O meglio, se amate i romani e quel periodo di transizione che da loro porta al medioevo, ecco, questa è la lettura che mi sentirei di consigliare ad occhi chiusi. E, detto tra noi, non credo di essere l'unica ad averla apprezzata. Ma di questo parleremo nel prossimo capitolo, quello della fiction storica. 


venerdì 3 ottobre 2014

Storie di santi e di eroi

San Benedetto da Norcia, affresco di Subiaco, da Wikipedia
E poi, dopo le storie segrete, arrivano quelle dei santi. E il medioevo ne è pieno. Uno di essi, forse uno tra i più noti, è San Benedetto, coetaneo, tra l'altro, di quel Procopio di Cesarea di cui parlavamo l'altro giorno. Lo so, la Chiesa è piena di santi e a star dietro a tutti...

Allora, diciamo che san Benedetto è quello dei benedettini. È lui che poco prima della guerra gotica, nella prima metà del VI secolo, fonda l'abbazia di Montecassino, famosa per essere stata rasa al suolo dai bombardamenti della seconda guerra mondiale; san Benedetto crea anche la regola benedettina, che poi è considerata il fondamento del monachesimo occidentale, e compie una serie incredibile di miracoli, senza contare le visioni e le predizioni.

Noi conosciamo abbastanza dettagliatamente tutta questa serie di eventi grazie a san Gregorio Magno, papa vissuto nella seconda metà del VI secolo e morto nel 604. Prendendo a pretesto una sorta di conversazione con un certo diacono Paolo, san Gregorio Magno racconta episodi della vita dei santi italiani e i miracoli a loro attribuiti. Nascono, così, i Dialoghi, opera in quattro libri il cui secondo volume è dedicato esclusivamente alla vita esemplare del santo Benedetto morto solo pochi decenni prima.

Bombardamento di Montecassino, immagine da blog.oup.com
San Gregorio Magno non aveva conosciuto personalmente san Benedetto, ma aveva incontrato e ascoltato quattro dei suoi discepoli. E da queste testimonianze trae origine la Vita di San Benedetto.


Sicuramente, al tempo delle guerre gotiche, il santo doveva avere già una bella fama. Personaggi illustri quali Totila, re dei goti durante la seconda parte della guerra gotica, si prendono il disturbo di farsi una bella sfacchinata fino in cima a Montecassino per andare ad incontrarlo. E se qualcuno se lo sta chiedendo, no, Totila non ci arriva in ginocchio e non ci va con spirito devoto e contrito.
Prima di tutto, perché Totila non era cristiano. Anzi, proprio come tutti gli altri goti prima e dopo di lui, anche se dopo di lui ce ne sarebbero rimasti davvero pochini in giro, era un ariano. Apparteneva, cioè, ad una sorta di devianza del cristianesimo che non credeva in Cristo quale figlio di Dio e persona della Trinità, ma lo vedeva come la creatura più alta che Dio avesse creato, dotato di una certa dignità rispetto al resto del creato, ma pur sempre sua creatura.
Da Benedetto, Totila non ci va, quindi, per parlare di cose religiose. Del resto, dubito persino che gliene fregasse qualcosa. I Goti non erano proprio dei campioni di filosofia teologale e il loro re, un ragazzotto che probabilmente aveva passato tutta la sua vita a cavallo, spostandosi da un campo militare all'altro, non poteva certo fare eccezione. Lui ci va per svergognare il santo e prendersi beffa dei creduloni che lo dicono dotato di visione profetica. Così, arrivati in prossimità di Montecassino, Totila il re dei Goti si spoglia dei suoi abiti regali e li cede ad uno scudiero, comanda a tre dei nobili della sua guardia di seguire ed onorare lo scudiero come se fosse il re e di presentarsi al monaco in tal guisa, per vedere quanto la vista del santo fosse lunga.

Quando i quattro arrivano con il seguito imperiale davanti alle porte della cittadella, trovano Benedetto lì ad aspettarli. Non concede loro nemmeno il tempo di aprire bocca che subito apostrofa il falso re, dicendogli: "Togliti quegli abiti che non ti appartengono". Allora lo scudiero e il suo seguito cadono prostrati a terra e se ne tornano da Totila di filato. Per quanto in gamba fosse quale re, alla fine Totila era pur sempre un barbaro un po' capoccione. Non fa sorpresa sapere che, rivestitosi dei suoi abiti, va lui stesso a chiedere di questo Benedetto. E Benedetto lo accoglie con aria placida. Gli dice che fino a quel momento aveva fatto molto male, che doveva ravvedersi, che sarebbe entrato in Roma, avrebbe passato il mare, che avrebbe regnato nove anni e al decimo sarebbe morto. Di sicuro Totila venne scosso da simili parole. Un po' maluccio si era comportato, in effetti. Ma relativamente nulla, se si pensa in che tempi si era.
In ogni caso, da quel giorno si dimostrò con gli italiani e con i nemici catturati meno barbaro degli stessi bizantini; dopo poco entrò a Roma, tornò verso la Sicilia, regnò nove anni e il decimo morì in battaglia.

Spinello Aretino, Totila incontra san Benedetto
San Miniato al Monte, Firenze. Da Wikipedia
Ci sono poi altri miracoli che colpiscono per originalità e che quindi mi sembrano degni di attenzione, se non vogliamo proprio dire fede. E poi ce ne sono altri che sembrano ricalcare miracoli di altri santi, come lo stesso compilatore ricorda. E questi, forse, potrebbero essere stati ricordati, magari riadattandoli un pochino, allo scopo di collocare san Benedetto nella schiera dei grandi personaggi biblici e donargli pari autorevolezza.

Nonostante il dubbio che una dose di manipolazione di alcuni eventi ci sia stata, rimane la sensazione di trovarsi davanti ad un personaggio reale, storico: un santo, ma anche un uomo, con mille pregi, ma anche qualche spigolosità di carattere, capace di comunicare con Dio ed intercedere per gli uomini.

E la domanda, anche questa volta, salta fuori, vero? Qual è la verità storica? Quanto la vita di San Benedetto è stata aggiustata dai suoi discepoli o dallo stesso Gregorio Magno per renderla più esemplare e quanto possiamo dire che sia la testimonianza genuina della vita di un santo?
Ad essere onesta, poco mi importa. Scopo del compilatore non era, in fondo, esaltare la persona Benedetto, ma esaltarne il messaggio. E questo è un compito a cui assolve egregiamente.

E allora, a volte, può essere giustificata la manipolazione della verità storica?