lunedì 29 settembre 2014

La storia segreta


La scorsa settimana vi avevo lasciato tra le sfumature gialle dei miei romanzi polizieschi, con uno Sherlock Holmes in sospeso. Probabilmente pensavate che toccasse a lui, ora.
Beh, diciamo che lui era arrivato ad interrompere un altro filo che si inoltrava in altre direzioni: quelle delle letture archeologiche. No, non mi interesso di archeologia, ma vi tedierò, almeno per qualche post, con letture che non sono già più classiche, ma nemmeno moderne (in senso lato).

Avevo da un po' nel mio lettore un paio di volumetti che stavano lì ad aspettare il loro turno.
Il primo era Seneca, con le sue Lettere a Lucilio (scritte tra il 62 e il 65 dC). Il secondo era La storia segreta di Procopio di Cesarea. Ora, sebbene Seneca lo dovete conoscere per forza almeno di nome (quindi sapete bene che si può definire senza remore "classico"), non pretendo lo stesso nei confronti di Procopio di Cesarea. E indovinate quale dei due mi sono andata a leggere?

Esatto, Procopio.
Aspettate, non andate a google-are subito, vi racconto io chi è questo Procopio. Ma prima dobbiamo ricordarci un po' di storia alto-medievale o tardo-imperiale, o anche bizantina, se preferite, e, più precisamente, la storia delle invasioni barbariche. No, non dal principio, perché, onestamente, degli Unni e di Attila ne ha già parlato tempo fa Piero Angela in un lungo documentario e quello basta. Diciamo a metà strada, un po' dopo la calata dei Goti in Italia e un po' prima della calata dei Longobardi: fine 400 - metà 500.

Ma senza perdere altro tempo, iniziamo a raccontarla, questa storia.

C'era una volta, verso gli inizi inoltrati del VI secolo, l'impero romano d'oriente e sul suo trono sedeva un imperatore di umili origini che aveva sposato una donna anche lei non molto più nobile, visto che era stata, in una vita precedente, una donna del circo. E si sa, a quei tempi lavorare nel circo voleva dire essere una prostitura. I loro nomi erano Giustiniano e Teodora. La storia li ricorda così:


A quel tempo, l'impero d'occidente non se la passava molto bene. O meglio, se la passava discretamente rispetto a quello che sarebbe capitato in un futuro prossimo; ma anche rispetto a prima, considerando che già da un po' la corruzione e le lotte di potere avevano destabilizzato un po' tutta l'Europa occidentale (sì, lo so, all'epoca non esisteva il concetto di Europa. Eppure, per quanto possa sembrare strano, esisteva quello di "italiani", visto che i romani sotto i goti venivano comunemente chiamati da Procopio "italiani" per distinguerli dai romani liberi dell'impero d'oriente. E si potrebbe andare oltre, dicendo che i romani d'oriente venivano chiamati "greci" in senso dispregiativo dai nemici). A regnare in occidente non era più un imperatore romano, ma una serie di re barbari che per un motivo o per un altro erano capitati in Italia, in Spagna, in Gallia, in Africa... insomma, erano un po' dilagati ovunque. Ora, se non siete molto ferrati sul periodo storico, avrete almeno reminiscenze scolastiche che vi parlano di invasioni barbariche nefaste. Ecco, queste invasioni non furono proprio così catastrofiche e i re delle varie etnie barbare erano personaggi spesso cresciuti a Costantinopoli e che quindi conoscevano bene usi e costumi dell'impero, che magari sapevano comportarsi secondo l'etichetta e, soprattutto, che riconoscevano l'autorità dell'imperatore.

Tuttavia, appena salito al trono, Giustiniano decise che  l'impero romano doveva tornare sotto la guida dei romani e iniziò una serie infinita di guerre. Dapprima c'erano i Persiani, gran bei rompiscatole, sempre pronti ad invaderti i territori per motivi futili. Poi c'erano i Vandali in Africa che possedevano un sacco di campi di grano e altre risorse dal grande potenziale, se ben sfruttate dalle mani dell'imperatore; e poi i Goti in Italia, anche loro non proprio morti di fame se si pensa alle terre della Sicilia e del sud, ricche di grano e di vasti terreni agricoli. Piano piano, Giustiniano dichiara guerra a tutti e piano piano si dimostra anche vittorioso. Il generale che porta alla vittoria le tre campagne di guerra e che fa guadagnare all'imperatore un sacco di terre, tesori e schiavi è Belisario (nel mosaico con Giustiniano, è il personaggio alla destra dell'imperatore, quello alto, belloccio, con la barba). Con Belisario, parte in guerra anche un suo segretario che ha il compito di consigliere, ma anche di cronista. Il suo nome è Procopio. Sì, quello a cui accennavo sopra.

Procopio, oltre a dare consigli sensati in caso di impasse, era incaricato anche di scrivere un resoconto delle guerre condotte da Belisario (contro i persiani, contro i vandali e contro i goti); in più, successivamente, egli si premura anche di compilare un catalogo di tutte le costruzioni (palazzi e chiese) fatte erigere sotto l'impero di Giustiniano e un libricino chiamato La storia segreta.

Come storico, Procopio si dimostra un lucido ed equilibrato cronista. A parte la scrittura piacevole, il suo sguardo sugli avvenimenti delle guerre non cade mai nell'invettiva contro i barbari o nell'esaltazione partigiana dei suoi. Riconosce meriti ovunque li veda, che sia in campo amico o che sia in campo nemico e, allo stesso modo, giudica gli errori del nemico così come quelle del nemico.
Probabilmente, questo atteggiamento super partes non fu molto gradito all'imperatore. Caspita, stiamo esaltando la potenza vittoriosa dell'impero contro una banda di ridicoli barbari baffoni. Perché, allora, sottolineare le magagne interne dell'esercito, con le varie "incomprensioni" (leggi rivalità, quando non proprio insubordinazione) dei vari generali?
A questo punto, Procopio cerca di rimediare. No, non modifica le sue storie delle guerre, ma scrive Sugli edifici, l'opera che passa in rassegna le costruzioni volute da Giustiniano in tutto l'impero. Questo catalogo diventa, allora, il mezzo per esaltare la bontà e l'accortezza dell'imperatore.

L'ultimo lavoro di Procopio, Anektoda o La storia segreta, si discosta così tanto dai toni imparziali delle guerre o da quelli encomiastici sugli edifici che spesso ci si è chiesti se potesse davvero essere opera dello stesso Procopio. Alla fine, gli studiosi si sono risposti che sì, deve esserne per forza lui l'autore, perché quanti storici del tempo si potevano trovare nella stessa posizione che permettesse loro di osservare da vicino vita di corte, intrighi di palazzo, situazione dell'esercito nelle varie campagne e situazione delle terre conquistate, per non parlare dei retroscena della carriera del generale Belisario? Mhh... in effetti solo uno: Procopio stesso.

Frontespizio della Storia segreta
in un'edizione cinquecentesca.
Immagine da Wikipedia.
La storia segreta parla di tutte quelle cose lì con un tono schietto, a volte persino esacerbato, svergognando l'imperatore, l'imperatrice e il grande generale. La cosa che stupisce maggiormente, e non solo me, sono i toni talmente inviperiti che spesso ci si dice che quello che parla è un uomo rancoroso, che cerca vendetta attraverso la diffamazione.
Belisario, il generale che ha sconfitto ben tre regni, diventa un pavido che subisce le malie di una moglie fedigrafa; Giustiniano è addirittura un demone (uno di quelli veri, con tanto di esempi che lo confermerebbero) intento solo all'arricchimento personale (le guerre sono solo un modo per rimpinguare le sue tasche, non quelle dell'impero) e allo spargimento di sangue: qualsiasi mezzo per ottenere questi due scopi è lecito. Teodora viene descritta come una prostituta libidinosa sin dall'infanzia, che sposa l'imperatore essendo ben consapevole della sua natura demoniaca e che si dimostra ancora più crudele del consorte, usando gli stessi metodi di lui caricati di una ferocia impacabile.

 I fatti narrati a sostegno di questo dipinto poco felice dei regnanti sono molti. Alcuni non si ha difficoltà ad accettarli come veri. Altri ti lasciano riflettere. Ti portano a chiederti se sia mai possibile che l'intento dell'imperatore fosse semplicemente quello di uccidere più sudditi possibili per il solo gusto del sangue o accumulare più denaro nelle sue tasche per poi spenderlo in edifici sparsi per l'impero.

Che Procopio avesse subìto un grave torto dall'imperatore e che per vendetta avesse architettato di tramandare ai posteri un suo ritratto non proprio esaltante? Una specie di damnatio memoriae.
Sinceramente, non posso sostenere che molti dei fatti raccontati da Procopio siano inventati: altre fonti parlano chiaro e concordano con le accuse apportate al governo dell'imperatore Giustiniano. Tuttavia, lo sfogo dello storico sembra privo di quella lucidità che pervade le guerre e uno si chiede, suo malgrado: quale torto può aver mai subito, il nostro Procopio, dall'imperatore?

E a questo punto, ancora una domanda mi sorge spontanea: quanto una storia vera può essere fiction a sua volta? Del resto, non è forse vero che la storia viene scritta dai vincitori? E Procopio, in un certo senso, è il vincitore, colui che ha il potere della penna, il potere, cioè, di ritrasformare la storia secondo il suo punto di vista.
Il depositario della memoria storica: è lui il vero vincitore, alla fine. Perché è lui che fa la storia per coloro che verranno.



venerdì 26 settembre 2014

Stacchetto giallino



Perché in Italia il genere poliziesco ha preso il nome "giallo"?

Sì, lettore accorto, lo so che l'ho già detto qui, ma per i più distratti lo ripeto.

Nel lontano 1929, la Mondadori pensò di inaugurare una collana economica che avesse come protagonisti dei polizieschi tradotti per lo più dall'inglese. La copertina delle prime edizioni era gialla con titolo nero, frase accattivante (del tipo: "Questo libro non vi lascerà dormire" o "Ogni pagina un'emozione") e un'immagine racchiusa in un esagono rosso, come questo:


Presto, però, si optò per la soluzione che tutti ormai riconosciamo, quella con il cerchio rosso:


Nel 1941 la collana smise di uscire periodicamente a causa della censura fascista, ma non possiamo dire che la loro tradizione sia scomparsa, vero?

Se volete saperne di più sulla collana Mondadori, sugli autori stanieri e nostrani che vi sono stati pubblicati, sugli influssi, insomma, su tutto ciò che riguarda il giallo in Italia, c'è questo documento-opuscolo o simile di Emanuela D'Alessio, ricco di particolari interessanti e piacevole da scorrere: L'esordio dei Gialli Mondadori.
Qui ho trovato parecchie curiosità svelate che, tuttavia, non vi rivelo. Se siete curiosi almeno quanto me, vi farà piacere scoprire perché Mussolini censurò il giallo o come Simenon entrò a far parte della collana.

Adesso che spero di avervi incuriositi abbastanza, vi lascio tra le righe di Emanuela D'Alessio e corro a gustarmi le prossime letture.


lunedì 22 settembre 2014

Che razza di giallo sei?



No, non lo sto chiedendo direttamente a voi, niente panico.
Questo è l'ipotetico titolo di un gioco quanto meno inutile che vuole fare un po' di ordine nelle mie letture poliziesche.

Le regole del gioco sono semplici. Prima di tutto si elencano tutti i romanzi gialli letti fino ad ora. Almeno da quando abbiamo aperto il blog. E se non avete un blog, beh... facciamo finta di niente e prendiamo i gialli che vi ricordate meglio o che vi sono rimasti nel cuore, se volete.

Per quel che mi riguarda, ho steso una lista, tanto per rinfrescarci la memoria:

Eccola qui:

Chissà perché, pensavo fosse più lunga. Ma anche così possono bastare.

Di questi:

- almeno due sono cozy crime fiction (I misteri della via Morgue, Il vecchio nell'angolo).
- tre li definirei hard-boiled crime fiction (Il canto delle sirene, The Wire in the Blood, Red Dragon).
- uno (La verità sul caso Harry Quebert) lo definirei crime fiction con forte presenza di elementi del giallo giudiziario tradizionale (c'è un colpevole che in verità è innocente e l'indagatore deve svelare il vero assassino per scagionare il sospettato).
- l'ultimo, Il libro di legno, ho talmente tante riserve ad infilarlo in uno qualsiasi dei sottogeneri citati che mi sono arresa e l'ho lasciato incatalogato.

Tra i cozy, I misteri della via Morgue sono misteri della stanza chiusa a chiave (le uscite sono chiuse dall'interno: il crimine sembra inspiegabile). Gli altri sono tipici whodunit (classico svolgimento: crimine-indagine-risoluzione).

Tra gli hard-boiled, The Wire in the Blood è un howcatchem (sappiamo già dall'inizio chi è il colpevole), mentre Il canto delle sirene e anche Red Dragon oscillano tra whodunit e caper story (punto di vista del colpevole), mettendoci anche un po' di spirito noir.

Ancora una volta, il Il libro di legno rimane non ben classificato visto che c'è, in effetti, un motivo d'indagine all'inizio (una donna altolocata di una Palermo in cui si sente forte lo stridio tra le apparenze e la sostanza chiede al protagonista di ritrovare dei libri del suo defunto padre), ma il delitto vero viene commesso solo a metà del libro, mentre altri crimini compiuti in epoche precedenti vengono a galla in corso d'opera. Sembrerebbe una struttura in parte simile a quella di Chandler The big sleep (vi ricordate? Quello di cui non ho letto nemmeno la metà, antesignano del genere hard-boiled: anche lì il detective viene assunto per far luce su un crimine minore e solo dopo arriva l'assassinio) se non fosse che la sensibilità, le atmosfere familiari e le elugubrazioni della scrittura vi si discostano totalmente e lo rendono più... cozy (ma anche qui, le periferie, i personaggi, la mafia e la corruzione richiamano lo scenario caro all'hard-boiled). Insomma, un bel miscuglio che riesce solo in parte, come abbiamo visto a suo tempo. E non so se dare la colpa al tentativo in sé o al modo in cui è stato sviluppato.

Procedendo oltre, di tutti questi nostri gialli, il protagonista dell'indagine non è quasi mai un poliziotto vero.

In I misteri della via Morgue, come anche ne Il mistero di Marie Rogêt di Poe, il detective è un curioso gentiluomo caduto in rovina, ma non per questo in disperazione, che passa le giornate dormendo e le notti speculando su casi della vita e casi criminosi, adottando il metodo deduttivo indifferentemente per gli uni e per gli altri. Ne Il vecchio nell'angolo abbiamo un vecchietto un po' burbero che ama bere il suo latte in una pasticceria alla moda di Londra. Ne La verità sul caso Harry Quebert l'indagine è portata avanti da uno scrittore. Il libro di legno vede come protagonista un radiotecnico che a tempo perso fa il detective privato.
Ne Il canto delle sirene, come anche ne The Wire in the Blood, il detective è un profiler affiancato da un poliziotto e, infine, in Red Dragon è un ex poliziotto che per campare costruisce e ripara motori di barche, almeno fino a quando non gli viene chiesto di rientrare nel corpo e aiutare con le indagini.

Ecco, questo è quanto. Riordinate così, le mie letture gialle sembrano acquisire un senso maggiore, non vi pare?

O, almeno, una cosa sembrano gridarla a squarciagola: a risolvere il crimine è raramente il poliziotto vero e proprio. E allora perché li chiamano polizieschi? La maggior parte dei romanzi che mi sono letta sembrano addirittura asserire che i poliziotti raramente riescono a capirci qualcosa. Ma sorvoliamo su questo dettaglio che, già lo so, mi porterebbe a intraprendere letture infinite di antichi polizieschi dall'incerto valore letterario.


E per la cronaca: sì, ho letto Sherlock Holmes. Ma non l'ho inserito nella lista e non ne parlerò adesso. Aspettatevelo, prima o poi, ma non subito. : )

  
 

giovedì 18 settembre 2014

Le definizioni non finiscono mai



Eggià, vi avevo promesso un seguito al post delle definizioni giallesche (vero, Daniele? :D), ed eccolo qua. Ma forse non dovrei chiamarle più definizioni, ma caratteristiche strutturali.

L'altra volta ho cercato di dare una veloce scorsa a quelli che sono i sottogeneri del giallo. Per lo più, mi sono basata sui contenuti. Oggi, invece, mi stuzzica parlare della struttura di questi romanzi.

Perché, se andiamo a prendere la costruzione e l'impalcatura delle varie opere, ci accorgiamo che non tutte sono pensate allo stesso modo e l'effetto che ne deriva non è sempre uguale.

Whodunit, ripreso da furiousdiaper
Come ormai tutti sanno, di solito il romanzo giallo classico inizia con la scoperta di un omicidio (o fatto altrettanto criminale), per poi proseguire con le indagini. Mille prove saltano fuori durante la lettura e alla fine si arriva alla soluzione con relativo disvelamento di colpevole e movente. Questo è il tipico sviluppo che Wikipedia anglofona chiama whodunit (chi-è-stato o chi-l'ha-fatto, scritto come lo pronuncerebbe uno scozzese, ma non perché gli scozzesi ci abbiano a che fare, ma perché rimanda all'associazione giallo-genere popolare. E anche questo, da solo, sarebbe un argomento a sé, per un altro post).
La struttura è logica e lineare: il lettore trova tanti piccoli tasselli e si diverte ad incastrarli, giocando così al detective insieme al protagonista.
Immagine ripresa da casualoptimist

Di questo prototipo, ci sono varianti più o meno cervellotiche. Esempio supremo: il delitto è lì, sotto i nostri occhi, ma ci risulta impossibile capire come sia stato perpretato. Vi ricordate i Dieci piccoli indiani di Agatha Christie? Ecco, tipo quello. In inglese viene riferito come Locked room mistery (il mistero della stanza chiusa a chiave). Se vogliamo, il primo giallo della storia ha proprio questa struttura. Vi ricordate I delitti della via Morgue, di Poe? Il delito è compiuto in una stanza ermeticamente chiusa a chiave dall'interno ed è umanamente impossibile essere usciti dalla scena del crimine.

Un altro schema narrativo che si sviluppa in seguito è quello che prevede un'inversione nella sequenza dell'indagine: fin da subito sappiamo non solo come è stato commesso il crimine, ma anche chi lo ha commesso e lo scopo dell'indagine sarà quello di inchiodare il criminale apportando sempre più prove sostanziali.
In inglese, questa struttura viene detta howcatchem (come-li-acchiappi) o, più aulicamente, Inverted detective story (storia poliziesca invertita). Diciamo che in questa categoria ci possiamo includere tutti i romanzi riguardanti inchieste giudiziarie o medico-legali e simili.

Schema preso da davidboagey
C'è un'altra categoria di giallo che forse non potrei proprio inserire in una classificazione riguardante la struttura, ma in un'analisi del punto di vista narrativo. In inglese sono dette caper stories (e qui mi trovate in difficoltà nel tentativo di trovare una traduzione appropriata: Storie sottosopra? Capovolte, ribaltate? Di certo non "storie del cappero"! O forse...). Come si intuisce, c'è qualcosa che non funziona in modi tradizionale e che, anzi, viene ribaltata. E questa cosa è la voce narrante che, invece di essere associata al punto di vista del detective, viene sviluppata seguendo il punto di vista del criminale. Lo so, sto parlando del noir, sottocategoria già introdotta nel precedente post, ma siccome mi riferisco non tanto ai contenuti, quanto alla struttura narrativa, mi sembrava bene aggiungerlo anche qui.

Ecco qui, queste mi sembrano le caratteristiche strutturali più menzionate e adottate dai vari gialli.
E adesso che vi ho tediato con classificazioni e definizioni, cosa facciamo?

Beh, andiamo a rivedere tutti i gialli che mi sono letta e cerchiamo di inquadrarli in uno o in più di questi sottogeneri. :)
Un esercizio senza scopo, ma che stranamente mi appaga in modo non indifferente. :D

Ma questo al prossimo post.



lunedì 15 settembre 2014

Definizione di genere: il giallo




Riesumando i titoli dei gialli che mi sono letta in quest'ultimo anno, mi rendo conto che, pur riuscendo a identificare ognuno di loro come giallo, spesso le loro caratteristiche sono talmente lontane tra loro che si fa fatica a pensarli come appartenenti ad un unico genere.

Cerchiamo allora di fare un po' di ordine.

Cos'è il giallo?

In inglese viene chiamato Crime fiction e secondo me rende meglio l'idea: c'è un crimine commesso, spesso omicidio; c'è un detective non sempre di mestiere che risolve casi usando il metodo deduttivo, quello stesso metodo che Edgar Allan Poe descrive con minuzia all'inizio del racconto I delitti della via Morgue (1841); e c'è, naturalmente, la soluzione del caso.

  
Edizione italiana del 1934
de Le ultime avventure di 
Sherlock Holmes.
In italiano, la stessa definizione è applicabile alla nostra letteratura gialla o, più semplicemente, al giallo. L'uso del termine nostrano si diffonde a partire dal lontano 1929, quando la Mondadori iniziò a pubblicare una collana di polizieschi chiamata Il Giallo Mondadori. Sua caratteristica è la copertina di colore giallo, ovviamente. Sinonimo di giallo è poliziesco, anche se non sempre i poliziotti c'entrano.

Ok, fin qui ci siamo. Tutti i gialli che mi sono letta rientrano in questa categoria generale: crimine, indagine condotta con metodo deduttivo, risoluzione finale.

Eppure è ancora difficile accostare Il libro di legno di Gian Mauro Costa (2010) e Red Dragon di Thomas Harris (1981) e considerarli dello stesso genere.

Fin dall'inizio si vede l'enorme differenza tra i due. Ne Il libro di legno l'indagine non parte da un omicidio (affari legati al recupero di libri dispersi), mentre quelle nel Red Dragon partono da una serie di omicidi plurimi. A chi troppo e a chi niente.
E poi, i toni sono davvero antitetici: il primo si trastulla con lunghe meditazioni, con accidenti anche un po' squallidi e brutali, ma sempre velatamente accennati e di certo non cerca di scioccare il lettore.
Il secondo mira all'effetto raccapricciante, anche se non risulta mai ricercato solo per il gusto di disgustare.

Il primo rientra nella categoria del cozy crime fiction, che tradotto da noi non suona affatto bene (cozy vuol dire confortevole, comodo. Dà l'idea di un ambiente accogliente). L'aggettivo cozy descrive perfettamente l'ambito in cui l'azione viene rappresentata: di solito residenze eleganti, spesso situate nella campagna inglese, abitate da personaggi di estrazione altolocata che si ritrovano un bel cadavere nella sala da biliardo, o nello stanzino. Uno solo, di cadavere, di cui ci viene detto proprio l'essenziale: è morto, a volte strangolato, a volte accoltellato, ma anche a suon di pistolettate, volendo. Il detective di turno, anche lui di estrazione sociale elevata, guarda, congettura, deduce e, alla fine, senza fermarsi troppo su dettagli inquietanti o sporcarsi le mani, trova il colpevole e lo dona alla giustizia. La cosa che affascina di più è che il lettore diventa a sua volta un detective: segue le piste, si scervella di pari passo con l'investigatore. Esempi famosi: Miss Marple, Sherlock Holmes, eccetera eccetera.
Beh, in effetti, è quasi gradevole immergersi in un simile contesto, nonostante il vago dispiacere per quel povero cadavere nella sala del biliardo. 
 
Il secondo romanzo, invece, lo possiamo definire hard-boiled (bollito... sodo... crimine bollito? Da qualche parte avevo letto un tentativo di giustificare l'accostamento del "bollito" al crimine, ma ora sembra sfuggirmi). In questo genere di gialli, l'ambientazione si apre su una periferia cittadina. Spesso i killer si muovono in contesti degradati, non disdegnano l'uso di una violenza esagerata e i detective che li braccano usano, a loro volta, metodi violenti, arrivando ad adottare tecniche d'indagine non sempre lecite. Anche loro, al pari dei loro ricercati, sono spesso tormentati da demoni personali. E poi il cadavere! Al misero numero di cadaveri del giallo cozy si contrappongono le orde di cadaveri ammassati qua e là dell'hard-boiled.
Esempi di questi gialli sono quelli di Raymond Chandler. Lo so, non vi dice niente, o almeno a me non diceva niente. Ma appena aperto The big sleep del 1939 e lette le prime righe, l'influsso che il detective Marlowe ha avuto su gran parte del cinema giallo degli anni... beh, di tutti gli anni o quasi, mi è stato subito evidente.


Ecco qua, Humphrey Bogart che impersona Philip Marlowe in The Big Sleep, film del 1946 che ha fatto scuola. Ve lo avevo detto che qualcosa vi avrebbe detto, non fosse altro per l'associazione di Humphrey Bogart al detective.
Notiamo con raccapriccio la dissonanza di questo personaggio nuovo con i detective che lo precedono: caspita, questo si intasca un bell'assegno di dubbia provenienza, anche se come regola ha quella di essere pagato alla fine del lavoro (e lui dichiara apertamente che il lavoro non è concluso). Quando mai uno Sherlock Holmes avrebbe accettato denaro per il suo operato? E poi lo spudorato erotismo che spilla da tutti i pori, al limite del volgare (cosa? Amazzoni che non vedono l'ora di essere cavalcate dal fantino giusto? Oh, my Goodness!).

Ci sono anche altre particolarità che distinguono Chandler da tutti i precedenti. Ma adesso sorvolo su un eventuale elenco, anche perché quelli di The guardian lo hanno fatto prima (e meglio) di me.

Per conto mio, posso aggiungere che ho iniziato a leggere The Big Sleep senza troppo entusiasmo e che senza rimorso l'ho accantonato a nemmeno la metà. Ellosò, probabilmente ho fatto una sciocchezza e altrettanto probabilmente ci tornerò sopra, e finirò anche di vedere il film, lasciato anche questo a metà. Vai a capire il perché. Forse non è semplicemente il periodo giusto.

Ma non divaghiamo troppo, torniamo al genere.
Tra il cozy e l'hard-boiled c'è un'infinita varietà di ibridi che germoglia nel tempo.

Ad esempio, il giallo giudiziario, in cui il colpevole è già noto e la narrazione di svolge nelle aule del tribunale. Lo scopo del tutto è  incastrare il cattivo, che sia un poco di buono, una compagnia che avvelena acque o polmoni o una qualsiasi altra entità malvagia non-soprannaturale. A volte si scopre che il colpevole non ha colpe e allora il legale assume il ruolo di detective nel tentativo di scagionare il poveraccio ingiustamente tenuto in cella. Esempi famosi che mi vengono in mente, anche se piuttosto recenti, sono i romanzi di John Grisham.

Poi c'è il noir, un sottogenere dell'hard-boiled, in cui non solo la soluzione del caso non è sempre assicurata, per cui niente contentino consolatorio e ristabilimento dell'ordine iniziale, ma il lettore è anche invitato ad una sorta di cogitazione dei contenuti.
Spesso, inoltre, il punto di vista non è quella del buon detective, ma del cattivo criminale.
Altra caratteristica fondamentale del noir sono i toni sinistri, il fosco stato d'animo che sommerge il lettore.
Esempi? Da noi c'è Lucarelli. Penso ad Almost Blue (1997), ad esempio.

Infine, ci sono la letteratura di spionaggio e quella dedicata ai serial killer e persino i thriller vengono associati al giallo (c'è da aggiungere che il giallo giudiziario, come anche quello medico-legale, vengono definiti da alcuni thriller).

Insomma, ne abbiamo di sottogeneri in cui brancolare nel tentativo di classificare le mie letture gialle.

E non è finita qui!
Ma, il resto, al prossimo post.



giovedì 11 settembre 2014

Stacchetto acquerellesco



Ne Red Dragon il pazzo seria killer si muove spinto dall'ossessione per questo:


The Great Red Dragon and the Woman Clothed in Sun di William Blake.
Eggià, William Blake non era solo un poeta, ma anche un pittore che tra il 1805 e il 1810 crea una serie di acquerelli, quattro in tutto, chiamati The Great Red Dragon Paintings.
Il tutto nasce da un lavoro commissionato dal mecenate Thomas Butts, che ha come soggetto l'illustrazione dei capitoli 12 e 13 del Libro dell'Apocalisse: 
[1]Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. [2]Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto. [3]Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; [4]la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato. [5]Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e il figlio fu subito rapito verso Dio e verso il suo trono. [6]La donna invece fuggì nel deserto, ove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni.
Come accennato, gli acquerelli sono quattro: The Great Red Dragon and the Woman Clothed in Sun, quello che vedete sopra, The Great Red Dragon and the Woman Clothed with the Sun, che vedete qui sotto,



The Great Red Dragon and the Beast from the Sea:


e The Number of the Beast is 666:




Blake era un poeta visionario, apocalittico, romantico e cosette simili. Questo suo essere poeta, e per di più romantico, lo condannerebbe all'esclusione dalla lista delle nostre letture, ma chi lo sa? Anche Coleridge doveva essere bandito da questo luogo, eppure...
Mai dire mai.



lunedì 8 settembre 2014

Serial Killers e pure cannibali!



Quando ti comparano uno scrittore inglese ad uno americano, di solito mille sono i pensieri che mi frullano per la testa. Il primo: sicuramente il romanzo inglese mi sarà più familiare. E non solo perché in quei posti ci sono stata. Non so, forse per colpa delle grandezze. In America tutto è non solo grande, ma enorme! Le strade, le città, i crimini. Tutto acquista una patina di "fantastico", forse per colpa della vastità, acuita poi dalla lontananza. La città in cui l'assassino uccide diventa un'intero stato, il tragitto in macchina diventa il volo in aereo, i due o tre omicidi diventano venti o trenta, il numero di poliziotti impiegati diventa il triplo e via così, fino a quando tutto diventa amplificato ed esotico. In genere, io preferisco la dimensione più familiare. Ma quando mi hanno comparato Val McDermin a Thomas Harris (quello de Il silenzio degli innocenti - 1988 -, per capirci), mi sono incuriosita e sono andata a cercarmi qualcosa di quest'ultimo. No, non Il silenzio degli innocenti , perché, prima di tutto, conosco bene il film. Raramente leggo un libro di cui ho già visto il film. E poi, Il silenzio degli innocenti non è nemmeno il primo romanzo a parlare di Lecter. Quindi, come al solito, sono andata alle origini: Red Dragon (1981).

Cosa dire?
Thomas Harris. Foto presa da randomhouse

La prima metà del romanzo: quante volte mi sono detta: ma vatti a vedere il film e molla questa noia! Almeno ti godi i momenti salienti e non ti subisci questa scrittura.
Frasi brevi, dialoghi serrati, talmente serrati che spesso non si capisce chi stia parlando, americano stretto (molte espressioni, specialmente nel dialogato, non mi sono familiari e le frasi brevi non aiutano a farsi un'idea del senso complessivo). Descrizioni  di un'indagine dettagliata, di cui poco capisco... uff.

La seconda parte del romanzo: il vero protagonista viene fuori ed allora tutto cambia. La narrazione si fa molto più intima, l'analisi psicologica e il racconto del divenire del protagonista sono estremamente convincenti e il libro corre verso il finale come in un sospiro mozzafiato.
E ad un certo punto, in alcuni passaggi, quello che sembrava un difetto (frasi brevi e fulminee), diventa il punto di forza.

Thomas Harris non è un tipico scrittore americano. Non sforna 2 o più romanzi all'anno e non dona lezioni di scrittura a giovani aspiranti. In una carriera di 30 anni, ha dato alle stampe cinque romanzi, di cui quattro vantano la presenza di Hannibal Lecter. A sentire Wikipedia, Stephen King dice di lui:
[Writings is] to Harris ... like "writhing on the floor in agonies of frustration", because, for Harris, "the very act of writing is a kind of torment".
[Lo scrivere] è per Harris come "cantorcersi sul pavimento in agonia e frustrazione", perché, per Harris, "lo stesso atto di scrivere è una specie di tormento".
Non ho difficoltà a crederlo. Il problema è che di tale tormento, di tanto in tanto, ne diviene partecipe anche il lettore che lo deve subire. Ma poi le idee, gli sviluppi e quei semini di genialità nella scrittura che di tanto in tanto escono fuori, ripagano della fatica.

Naturalmente Red Dragon è stato riadattato per lo schermo. E non solo una volta. Il primo film uscì nel 1986 con il titolo di Manhunter. Un film che per la prima parte si mantiene abbastanza fedele al romanzo, ma che nella seconda ignora molti dettagli della storia e semplifica il tutto, quasi banalizzandolo. Per non parlare della fine ritrasformata (sigh!) e della colonna sonora molto anni '80. Ma quest'ultimo difetto glielo perdoniamo, visto che non si può chiedere ad un film degli anni '80 di essere meno anni '80.

Il secondo, Red Dragon del 2002, esce dopo Il silenzio degli innocenti e, naturalmente, visto il successo del dottor Hannibal Lecter, ci tiene ad esaltarne il ruolo. Lo fa, tuttavia, con discrezione, amplificando appena un poco l'importanza che il cannibale in gabbia ha nella cattura del Red Dragon e aggiungendo dettagli che sottolineano la sua predilezione per la carne umana, appetito che nel libro viene appena accennato in particolari più indiretti che manifesti*. A parte questa lieve divergenza, il film si mantiene davvero fedele per quasi tutto il tempo, tanto che i dialoghi, il vero punto di forza del romanzo, sono presi così come sono. L'unica cosa che un po' mi ha fatto storcere la bocca è stato il finale, l'unico vero momento in cui gli sceneggiatori si prendono un po' di libertà. Per fortuna in modo lieve, ma comunque qualcosa cambia e il tutto si sbilancia verso un più che lieto fine, mentre nel romanzo il lieto fine resta privo del "più".

Ma non sostiamo troppo sul dettaglio finale, ricordiamoci il cast non proprio da quattro soldi (Vabbe', Hannibal è naturalmente Anthony Hopkins; il detective è interpretato da  Edward Norton, quello di Fight club del 1999, e Red Dragon da uno stupendo Ralph Fiennes, quello di Onegin del 1999, ma forse più famoso per Il paziente inglese - 1996) e la suspance ben giostrata per tutto lo sviluppo del film ed ecco che, per uno che ama il genere, la sua visione è d'obbligo. Ma, ancora una volta, dopo aver letto il libro, naturalmente. Perché, è vero, è molto fedele, ma le sfumature e la tragicità dei personaggi non possono essere resi in pellicola con la stessa intensità del romanzo.

E, come spesso mi accade ultimamente, mi chiedo: perché il cinema sente così spesso il bisogno di stravolgere i finali dei romanzi?
Mah, interrogativo che non riesco a risolvere, se non ipotizzando che, non potendo rendere completamente l'atmosfera e le sottigliezze psicologiche come la parola riesce a fare, si cerca di buttarla nel sensazionale, nella scena d'azione o di commozione che accontenta un po' tutti. Tranne colui - o colei - che prima si era andato a leggere il romanzo da cui il film è tratto. Ma che ci vogliamo fare?

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* A proposito di manie e gusti gastronomici: lo sapete cosa legge Hannibal Lecter quando il buon detective Graham va a trovarlo in carcere?
Le Grand Dictionnaire de Cuisine, Alexandre Dumas padre, 1873. Lo so, non vi dice nulla. Eppure ne avevamo già parlato a Natale, ricordate?
E ancora una volta, mi meraviglio di come le mie letture trovino riverberi le une nelle altre.


venerdì 5 settembre 2014

Ancora su Val McDermin



Nello scorso post vi avevo detto qualcosa come: "Non dirò molto di più su Il canto delle sirene di Val McDermin". Ed invece ci ho ripensato; perché, spulciando qua e là commenti di lettori vari e, poi, andando a leggiucchiare tutto d'un fiato il secondo volume delle avventure del profiler Tony Hill, mi è venuta voglia di dire qualcosa in più.

Val McDermin, imm. da shetlandarts.com
Ma, non volendo rischiare di ricevere gli accidenti da quell'unico lettore che ha intenzione di iniziare Il canto delle sirene proprio la settimana prossima, lo dico qui a caratteri cubitali: tu, lettore incuriosito, smetti di leggere adesso questo post. Ripassa magari tra qualche giorno, per il prossimo. Io te lo dico: uomo avvisato...

E adesso vi racconto da cosa nasce questo mio bisogno di spoilerare barbaramente Il canto delle sirene e anche i sequel a venire. Andate su Amazon, cercate il libro menzionato e cliccate per far saltare fuori tutti i commenti. Scoprirete che tra una quindicina di pareri, dieci sono estremamente galvanizzati, 3 o 4 discretamente cauti tendenti all'apprezzamento e due assolutamente negativi. Siccome, da brava lettrice compulsiva, io sono usualmente restia a fidarmi troppo dei giudizi esaltati di altri lettori compulsivi, i primi commenti che di solito vado a sbirciare sono quelli negativi. E così ho fatto anche questa volta.
Vediamo un po', cosa ho trovato?

Il primo. Anzi, la prima. Ok, non ci ha capito nulla. Ma non perché sia tonta, ma semplicemente non è il suo genere. Perché da un romanzo che si anticipa essere alla CSI su serial killer e profiler non ti puoi aspettare delitti alla Don Matteo. Certo che ci sono scene raccapriccianti, certo che c'è un accanimento sui dettagli macabri di torture e mutilazioni. Altrimenti che gusto c'è?

"Serial killer". Immagine da themadrose.wordpress.com
Altra cosa che mi ha lasciato perplessa è il suo commento riguardo alla mancanza di una motivazione credibile. Questa affermazione mi ha gettato nel panico. Oddio, che mi sono persa? Presa dalla foga di vedere come va a finire, forse non ho dato troppo peso alle motivazioni del cattivo? Forse, intrigata dall'effetto, ho accettato per buono un motivo piuttosto fragile?
Mhhh...
No. A me sembra che la motivazione ci sia e che, sebbene non risulti roboante come quella di Hannibal Lecter (li uccido perché ci provo gusto a mangiarmeli) o come quella di un qualsiasi stupratore seriale, a me è sembrata convincente e nemmeno troppo banale. Diciamocelo: il serial killer non si prende facilmente proprio perché mosso da logiche deviate e completamente imprevedibili. Altrimenti sarebbe un gioco da ragazzi comprenderlo e prenderlo e i profiler non avrebbero senso. O sbaglio? E poi, come si fa a chiedere di rendere ragionevoli le motivazioni di uno psicopatico? L'importante è che il romanzo mantenga una coerenza e che il movente regga. Cosa che, secondo me, fa eccellentemente.

Ultimo appunto della commentatrice negativa: l'ambientazione. La storia si svolge in Inghilterra, ma non sa per niente di Inghilterra. Invece, come accennavo nell'altro post, leggendo già solo le prime pagine, io mi sono sentita catapultata in una periferia di Londra, o meglio, in uno di quei paesini subito alle porte di Londra, con il loro parchetto verde squadrato al centro della piazzona, le loro strade dei locali notturni sempre affollati di gente ubriaca e avvinghiata, il clima cupo e grigio, le casette a schiera: rieccomi a Londra ancora una volta.

Esaurito il primo commento negativissimo e liquidato più o meno in fretta, sono passata al secondo. Questa volta sicuramente è un uomo a parlare. Egli dice: "Tony Hill (lo psicologo profiler) non convince mai."
Ehm...
(Distogliete lo sguardo, voi futuri lettori del romanzo, ora più che mai!)
Perché non convince mai?
Perché è un uomo impotente. Sì, impotente in quel senso lì, avete capito, no?
Già: Tony Hill è figo! Un po' strano, insolito, perspicace, anche se non infallibile (diciamo che la poliziotta che lo affianca nelle indagini sembra più sveglia di lui, a volte), tuttavia Tony Hill sembra estremamente fragile. E qui si rende doverosa una spiegazione dettagliata del personaggio. Tony Hill riesce bene nel suo lavoro perché comprende a fondo i killer e i malati mentali che segue. Li capisce perché anche lui, troppo normale non è. Sta sempre lì lì, in bilico su quella linea sottile che divide sanità mentale da insanità e per non caderci dentro e dare sfogo a pulsioni che lo renderebbero davvero un killer, si costringe ad una castrazione subliminale e si rivela impotente. Naturalmente non è che lo viva benissimo questo suo stato, che non è proprio volontario.
Uno potrebbe pensare al riguardo: ma chi se ne frega, tutto sommato, delle impotenze di un uomo di carta. E avrebbe pure ragione, se non fosse che questo dettaglio è funzionale alla storia.

Ho provato simpatia per Tony Hill e il suo "problema", ma ho anche iniziato a considerarlo estremamente fragile, più fragile di molti caratteri simili con turbe mentali di perdita o di inadeguatezza. E mi sono chiesta: è perché la scrittrice è estremamente brava a caratterizzare il suo personaggio o è perché il tabù dell'impotenza maschile scalfisce anche la mia visione dell'eroe e dell'uomo in genere?
Non lo so, a dire il vero; questo è un argomento che non ho mai considerato. Ci devo pensare su. :)

Ma, per tornare al commento negativo del lettore qui sopra, lui dice che il protagonista della serie poliziesca Wire in the Blood, telefilm inglese uscito tra il 2002 e il 2008 che si ispira ai romanzi della McDermin, risulta molto più convincente di quello del romanzo. Io ho sbirciato il primo episodio della serie. In realtà, l'ho fermato a metà: un po' perché ormai la trama la conoscevo, un po' perché il personaggio non era Tony Hill. Questo televisivo sembra una copia un po' (troppo!) caricaturata di Sherlock Holmes. Distante dal vero personaggio anni luce! Non so se la sua impotenza salta fuori nel film, non ne ho visto abbastanza. In ogni caso, se vi va, lo trovate anche su youtube. Ma meglio il romanzo, ve lo consiglio.

Prima di finire questo post chilometrico, vi tengo informati e vi dico che ho anche finito il romanzo The Wire in the Blood - 1997 (il titolo della serie tv deriva da qua). Anche questo l'ho divorato. Ed anche questo mi ha stupita.
In televisione, a volte capita che, dopo un certo numero di puntate, ci si ritrovi a piangere la morte di uno dei protagonisti. Fa colpo e commuove, lasciando aperte nuove possibilità per altri personaggi. Ma in un romanzo? Uno scrittore passa buona parte dei primi capitoli a cercare di rendere credibile e caro al lettore un personaggio per poi toglierlo di mezzo???
Sì, succede anche questo. E succede anche che noi, ed anche Tony e la sua squadra, sappiamo fin dall'inizio chi è l'assassino e il difficile non è scoprirlo, ma incastrarlo.

Ecco qua, vi ho rovinato ben bene le sorprese nelle letture di Val McDermin, vero?
Se vi piace il genere, questa scrittrice vale la pena. Ve lo dico convinta perché, sebbene non mi capiti spesso di tuffarmi in simili letture, ultimamente mi ci sono dedicata un po' e ho potuto fare dei paralleli. Ma questo ve lo racconto la volta prossima.


lunedì 1 settembre 2014

Senso di abbandono alla riscossa



Ma cos'è?
In questo periodo trovo difficile staccarmi dalle mie letture, quesi provassi un senso di spaesamento ogni volta che, arrivata alla fine, mi guardo intorno per decidere da che parte continuare. E mi sento così incerta, così in balia delle correnti, che rinuncio ad avventurarmi sul nuovo e mi aggrappo esasperatamente a quello che ho appena concluso. Vedi la Baronessa con i suoi 5 volumetti. E vedi adesso questa serie di gialli inglesi.

Ma first things first, come dicono gli inglesi.

The man in the corner, da phillipkay
Sappiamo, ormai, che ero alle prese con gli eroi mascherati della Baronessa Orczy quando, inaspettatamente, mi venne rivelato dalla mia fonte prediletta - Wikipedia, sempre lei - che la Baronessa aveva anche creato una serie di racconti gialli (Il vecchio nell'angolo, 1905). In più, si rivela che è stata sempre lei a creare la prima donna detective della letteratura, una certa Lady Molly di Scotland Yard (1910).
Vabbe', ormai mi conoscete. Ho scaricato al volo Il vecchio nell'angolo e ho letto un paio di racconti, tanto per saggiare. Non che qui compaia la detective Lady Molly, la celeberrima investigatrice. C'è, invece, una giornalista che segue da lontano la cronaca nera di una Londra di inizio secolo piena di omicidi e assasinii. La dama adora andare a prendere il suo tè in una pasticceria particolare. Ha persino il suo angolino, sempre lo stesso, da dove ha la visuale migliore del locale e della finestra. Che sorpresa quando, un giorno, dirigendosi al suo solito cantuccio, trova un vecchietto seduto al suo posto che, con fare nervoso e anche un po' scontroso, sorseggia un bicchiere di latte. Un po' per caso, un po' a posta, la conversazione all'inizio gelida dei due scivola sui fatti di cronaca e lui inizia a vantarsi di saper risolvere i casi insoluti: basta un po' di cervello. A questo punto, quasi fosse un attrezzo indispensabile per carburare la sua vena investigativa, il vecchietto tira fuori una cordicella che annoda e snoda mentre snocciola le sue teorie e risolve uno dopo l'altro i delitti degli ultimi anni sotto lo sguardo ormai intrigato della giornalista.
I casi in sé sono esposti alla maniera di E. A. Poe: prima il vecchietto espone i fatti così come sono apparsi sui giornali e poi aggiunge le sue deduzioni, corredate dal resoconto di piccole esplorazioni sui luoghi dei delitti che lui stesso si è permesso di effettuare.
Imm. presa da Pinterest
Come al solito, la Baronessa riesce a dar forma al burbero e nervoso vecchietto con grande maestria, giocando solo su due o tre particolarità.
La Londra descritta a brevi tratti funzionali mi ha affascinata. Una Londra dei primi del '900, fatta di nebbia e vicoli scuri, grandi stazioni fumose e belle sale da tè: come non rimanerne sedotti?

Allora, con un po' di nostalgia per Londra e l'Inghilterra, mi sono detta: perché non continuare con un giallo britannico? Qualcosa magari non proprio così old fashion, più veloce... un bel giallo contemporaneo, insomma.
Ed ecco qui le famose offerte lampo darmi una mano nell'impresa: Il canto delle sirene, di Val McDermid (1995).
Come è facilmente deducibile, Watson, le due letture non possono essere più lontane l'una dall'altra. Da qui nasce anche la mia difficoltà a collocarle nella stessa categoria. Chiamarli entrambi "gialli" non aiuta molto la loro comprensione. Ma di questo parleremo altrove, a tempo debito.

Ed ora insultatemi! Perché Il canto delle sirene l'ho letto in italiano, non in originale. E questo è stato un erroraccio. La traduzione! Pessima! A parte gli errori grammaticali, ma le frasi! A leggerle, le parole sembravano collegate tra loro. Ma poi, quando vai a cercarne il senso, rimani con il famoso punto interrogativo sulla testa: che voleva dire?
Mille volte mi sono chiesta se fosse la scrittrice a bere troppo durante la stesura o se fosse il traduttore a non capirne molto d'inglese. Alla fine ho dato la colpa al traduttore. È vero, anche la scrittrice ha delle piccole pecche: a volte la scrittura viene rallentata da informazioni di poco interesse, ma questo uso del superfluo viene quasi subito abbandonato in favore di una narrazione coinvolgente. Non che sia avversa per principio all'infiorettamento con particolari inutili, ma forse in un poliziesco non ci sta proprio bene, a meno che non abbia intenti di altri tipi, come ad esempio il depistaggio. Tuttavia, in confronto all'ermetismo di certe frasi in traduzione, questo difetto è irrilevante.

Non dirò molto di più su Il canto delle sirene. Mi dispiacerebbe rovinare la lettura.
Forse, ad un certo punto, alcuni intuiranno parte della soluzione. Non credo che molti comprenderanno tutta la verità, e questo anche per colpa della traduzione. In effetti, bisogna essere abili per non cadere nelle trappole delle sbagliate corrispondenze tra lingue. Ma davvero, adesso taccio. Ho paura di aver detto persino troppo.

Ecco perché non mi piace parlare dei polizieschi! Non è affatto semplice lodare o analizzarne la trama rimanendo nel vago!

In ogni caso, come ho accennato all'inizio, mi sono già affezionata ai personaggi di questo giallo e siccome non si sono fermati al primo serial killer, cedo alla tentazione di seguirli, almeno per un altro
po'.