mercoledì 30 luglio 2014

Calvino e Orlando



Sì, lo so. Vi avevo detto che saremmo passati ad altre corti, altre epoche. Ebbene, vi ho mentito.

O meglio, ci finiremo, prima o poi. Ma proprio un attimo dopo aver dichiarato le mie intenzioni, mi è venuto in mente che avrei dovuto parlare di Calvino e della sua lettura dell'Orlando. Non avrei proprio potuto lasciarlo nel silenzio.

Grazia Nidasio, Ariosto e Calvino, tecnica mista su carta, 2009. Immagine presa da arabeschi

Dovete sapere che mentre mi avviavo alla conclusione del poemone, mi sono sorti dei dubbi amletici riguardo alle prime imprese degli eroi: non ricordavo più chi aveva liberato chi, come erano fuggiti questo o quello, dove avevo già incontrato quell'altro...
Converrete con me che ricominciare la lettura tutta da capo per togliermi questi dubbi sarebbe stato da folli. E, allora, mi è tornato alla mente che Calvino, proprio quell'Italo Calvino di cui avevamo parlato a proposito di Montecristo, aveva scritto qualcosa sull'Orlando, qualcosa che assomigliava ad un riassunto senza, tuttavia, esserlo.
Ed infatti, nel 1970 esce l'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto riletto da Italo Calvino. 

Possiamo dire che il volumetto nasce come "raccolta" di un paio di esperienze di Calvino roteanti intorno all'Orlando. La prima è stata la scrittura dell'introduzione per una edizione dell'Einaudi dell'Orlando (1966), mentre la seconda è stata la stesura di una serie di trasmissioni radiofoniche per la Rai, quando la Rai ancora faceva il suo lavoro di divulgatore di cultura.

Ci sono varie cose di cui rallegrarsi riguardo al volumetto in questione. Prima di tutto, la mole! Che non è fattore da poco, aggiungo.
Non che Calvino faccia un semplice riassunto dell'Orlando. Prende alcuni tra i passaggi principali, tanto per aver un'idea organica, fa una specie di riassunto commentato del brano in questione e ci infila le strofe originali che stuzzicano maggiormente il suo gusto. Ottima cosa, per una trasmissione didattica: mai pesante, avvicina il lettore alla musicalità del verso senza sotterrarlo nella copiosità delle rime desuete.

E poi c'è da ricordare la splendita introduzione che fa la storia del personaggio di Orlando, delle varie tradizioni, delle particolarità, eccetera eccetera. Anche solo per quella, varrebbe la pena leggerselo.

Ed, infine, grazie a Calvino, ci siamo risparmiati una sencoda lettura dell'Ariosto. Mi ha raccontato di nuovo quello che avevo dimenticato e mi ha fatto persino notare che la storia dell'Ariosto dell'inizio, quella tutta piena di diversioni e passaggi segreti in mille storie diverse, si fa meno tortuosa verso la fine, concentrandosi sui pochi ma buoni che rimangono.
Ci sono anche delle affermazioni che io non condivido totalmente (del tipo che Ruggero, al contrario di Astolfo, è personaggio schivo ad usare la magia e gli strumenti magici; cosa non vera, perché quando gli fa comodo, la usa e come! Vedi l'ippogrifo o lo scudo di Atlante che viene gettato via solo verso la metà della storia).
Ma in generale, non posso che lodare e anche suggerire questa lettura.


Quindi, questo è quello che dall'Orlando si è tirato fuori a livello radiofonico. Vediamo un po' se è stato fonte d'ipirazione anche altrove?



sabato 26 luglio 2014

Stacchetto pubblicitario


Tranquilli, la mia intenzione, oggi, non è quella di vendervi qualcosa.

Immagine ripresa da www.arte.it

Piuttosto, miro a farvi conoscere un'iniziativa che, se L'Orlando Furioso vi ha stuzzicato un pochino, potrebbe anche interessarvi: una mostra.

Sì, una di quelle mostre che probabilmente si riveleranno meno entusiasmanti di quello che promettono. O forse no, visto che gli organizzatori accennano ad un incontro sfavillante tra passato e presente: L'Orlando riletto dall'arte contemporanea.

La mostra si chiama L’Orlando furioso: incantamenti, passioni e follie. L'arte contemporanea legge l'Ariosto e si terrà a Palazzo Magnani di Reggio Emilia dal 4 ottobre 2014 all’11 gennaio 2015.

Confesso che mi è difficile immaginare cosa si troverà in una mostra di arte contemporanea che guarda all'Orlando. Ma il titolo incuriosisce non poco, non trovate? E se non mi fosse un po' troppo fuori mano, mi lascerei tentare senza esitazioni.

Così, se per caso frequentate certe zone d'Italia e, altrettanto per caso, vi viene voglia di fare un salto a Palazzo Magnani proprio in autunno inoltrato o, perché no? - durante le feste di Nalale, non pensateci su troppo, fatelo e poi raccontateci come è andata, mi raccomando!

Ecco qua, vi posto il link all'articolo de Il Ghirlandaio che parla dell'evento e vi auguro un buon weekend.



martedì 22 luglio 2014

Sulla Luna


Ludovico Ariosto, L'Orlando furioso, 1532.
  


Astolfo sulla luna, Gustavo Dorè.
Edizione francese del 1879..
Ripreso da roberto-crosio.net


E poi Astolfo arrivò sulla Luna.

Già. Prima di Verne, prima di Wells, prima di tutta la fantascienza, ci arrivò lui.
Non dico sia stato il primo in assoluto. Ci erano già arrivati i protagonisti de La storia vera di Luciano di Samosata (II secolo), anche se l'autore lo dice chiaro e tondo fin dall'inizio:
Scrivo dunque di cose che non ho vedute, né ho sapute da altri, che non sono e non potrebbero mai essere: e però i lettori non ne debbono credere niente.
Ben diverso dall'atteggiamento di Ariosto, che ci tiene a ricordare di tanto in tanto che tutto ciò che racconta è basato sul racconto di Turpino, testimone oculare dei fatti.

Immagine ripresa da divinacommedia.weebly
Altri due che arrivano sulla Luna prima di Astolfo sono Dante e Beatrice. In verità, la Luna, per loro, è solo una tappa nell'esplorazione dei cieli del Paradiso.

E poi ci arriva Astolfo che, per una fortuita serie di eventi, percorre anche lui un itinerario tra inferno e paradiso simile a quello del sommo poeta.
In breve: Astolfo offre i suoi servigi di paladino al re di Etiopia contro delle arpie fastidiose. Nell'inseguire queste amene creature che mangiano e lordano il pasto del povero re affamato, si ritrova per caso in una grotta da cui escono gemiti e pianti: chiaro segno che si tratta della bocca dell'inferno. Incuriosito, ci fa un giretto, incontra coloro che sono stati sgradevoli e ingrati nei confronti del loro fedele amante e per questo sono stati gettati laggiù. Astolfo non ci si sofferma troppo. Troppo fumoso. Esce da lì e, salito in groppa all'ippogrifo suo destriero alato, raggiunge la cima del monte che sovrasta la grotta e che si crede non essere lontana dal cielo della Luna. Qui trova un palazzo che supera in bellezza le sette meraviglie e incontra san Giovanni. Evidentemente siamo alle porte del Paradiso. Il santo rivela ad Astolfo che Orlando è pazzo, punito per la sua follia amorosa, ma che adesso è l'ora di ridargli la ragione perché bisogna che si dia da fare contro i Mori. Lui, Astolfo, è stato designato dal Signore per andare a prendere il senno smarrito del paladino furioso. E dove sta questo senno? Naturalmente sulla Luna, insieme a tutte le cose perse dall'uomo.
 
Su wikipedia ho trovato che Astolfo arriva sulla luna con il suo ippogrifo. In verità, è san Giovanni che gli offre un passaggio sul suo carro, lo stesso che aveva portato sant'Elia in cielo. Proprio come nel Paradiso di Dante, gli eroi passano la sfera del fuoco senza problemi e si ritrovano in un mondo molto simile alla nostra Terra. Ci sono mari e campi e castelli e montagne e valli in cui si depositano le cose che gli uomini della terra perdono nella loro vita. No, non portafogli o cose del genere, ma desideri infruttuosi, preghiere, promesse, sospiri di amanti e anche il loro senno, raccolto in piccole ampolle. Prima di tutto, Astolfo raccoglie il suo e se lo sniffa, vivendo poi da uomo saggio per il resto della sua vita (che non sia stato proprio un campione di prudenza lo dimostra la storiaccia con Alcina, la perfida maga che seduceva e abbandonava bei giovinetti tramutandoli in sassi e alberi parlanti). Astolfo rinsavito non dimentica la missione: prende l'ampolla di Orlando e la conserva gelosamente, anche se, per rispetto all'onorevole guida, non corre subito a consegnargliela, ma si concede un po' di tempo per continuare l'escursione sulla Luna. E cosa ci trova? Le Parche che intessono le vite, il Tempo che ruba la gloria.

Dopo essermi dilungata in un riassunto che non avevo troppa intenzione di infilarci, mi viene spontaneo, ora, sottolineare ancora una volta l'ampia varietà di tradizioni che saltano fuori persino in un brano di materia così prettamente religiosa: c'è il riferimento ai grandi sistemi universali di Dante, alla sua Commedia, ai santi e al Signore. Ma c'è anche una continua interferenza del mondo mitico classico: accanto a san Giovanni che trascina Astolfo sul carro di Elia, ci sono le Parche, le Arpie, protagonisti leggendari greci e chi più ne ha più ne metta. E, come al solito, tutti convivono senza problema, tutti comunicano con naturalezza, come se il mondo fosse alla fine un vasto luogo in cui tutti i giri di fantasia (perdonate la blasfemia di una simile affermazione) che il mondo occidentale ha nutrito nel corso dei secoli abbiano uguale diritto. A ben guardare, quella che Ariosto compila sembra quasi un'enciclopedia del fantastico, un'opera che raccoglie fantasie e fantasticherie del meraviglioso di ogni tempo, per conciliarle in un mondo parallelo, con le sue regole e leggi. Certo, mettere sullo stesso piano la tradizione cristiana e quella pagana, in qualche modo, equivale a farle cadere allo stesso livello, facendole diventare entrambe delle favolette, ma siccome questa era probabilmente la moda del tempo (e siccome non sono molto ferrata sull'argomento), non mi addentro oltre in tali speculazioni.
Immagine da deviantart.net

Non sarà una sorpresa, per il lettore, sapere che Orlando riacquista la ragione, che i cristiani vincono sui Mori, che Bradamante sposa Ruggero e tutti vissero felici e contenti. Almeno per un po'.

Ma lasciamoli godere il loro meritato riposo.
Senza disturbarli troppo, togliamoci di mezzo per entrare in altri ambienti, altre corti meno mitologiche, ma non meno mitiche.




venerdì 18 luglio 2014

Le donzelle di Orlando



Ludovico Ariosto, L'Orlando furioso, 1532.


Illustrazione di Gustave Doré, ripresa da commons.wikimedia.org

Ammettiamolo, quando si pensa al mondo dei paladini e dei loro amori la figura che ci fa la donzella è quella della povera indifesa, spesso in pericolo, gentile e delicata come un fiorellino di campo. Ecco, quella non è la dama dell'Orlando. Scordiamocela, perché secondo Ariosto, nessuna dama è indifesa, gentile e in attesa del cavaliere che la salvi - o la sposi.
Dante, Petrarca e Boccaccio, con le loro dame celestiali, ma anche i trovatori con il loro amor cortese, sono tutti morti. Alle perfette dame d'altri tempi, il cui compito è quello di elevare i cavalieri, sono succedute donne tutto d'un pezzo, determinate forse più degli uomini.

Donne in valore ed armi simili agli uomini, dagli stessi appetiti, che sanno come usare la loro bellezza o la loro forza per raggiungere i loro fini.

No, decisamente Ariosto ha una visione meno idealizzata della donna. E lo dimostra non solo descrivendo Angelica la subdola, che usa i suoi mille amanti per levarsi d'impaccio per poi dimenticarsi senza rimorsi di tutti loro appena il caso glielo consiglia.
La donna dell' Orlando furioso possiede ciò che, a volte, si ha l'impressione che i paladini non abbiano: una loro identità. A ben guardare, sono proprio loro, quelle dotate di una maggior concretezza psicologica, se di psicologia si può parlare nell'Orlando furioso, a spiccare nell'arena degli eroi. Basti pensare ai paladini Rinaldo o Orlando, Ruggero, Astolfo: figurine ritagliate intorno ad un'armatura scintillante riempita di onore, coraggio e valore. Contrapponiamoli poi ad Olimpia, ad Isabella o a Fiordiligi, rappresentanti della virtù e della fedeltà. Le loro storie, i loro drammi, il loro sacrificio risultano molto più toccanti e reali che non una qualsiasi impresa dei cavalieri loro consorti; risultano più vive, se non proprio per una loro profondità psicologica, almeno per una loro identità tragica estremamente ben studiata.

Illustrazione di Gustave Doré, ripresa da pinterest.
Ma Ariosto non ha dato alle sue dame solo una caratterizzazione tragica. Ha fornito loro anche una fisicità reale, descritta con accenti... diciamo mondani, più che spirituali. Alcuni episodi sembrano, infatti, inneggiare non il corpo trasfigurato dalla bellezza ideale, testimone di virtù profonde, ma la bellezza carnale e sensuale di un corpo perfetto nella sua concretezza. Da far arrossire. O accendere, come spesso scrive Ariosto nei suoi versi.
Questo lo riprendo dall'XI canto e parla di Olimpia.

67 Le bellezze d’Olimpia eran di quelle
     che son più rare: e non la fronte sola,
     gli occhi e le guance e le chiome avea belle,
     la bocca, il naso, gli omeri e la gola;
     ma discendendo giù da le mammelle,
     le parti che solea coprir la stola,
     fur di tanta eccellenza, ch’anteporse
     a quante n’avea il mondo potean forse.

68 Vinceano di candor le nievi intatte,
     ed eran più ch’avorio a toccar molli:
     le poppe ritondette parean latte
     che fuor dei giunchi allora allora tolli.
     Spazio fra lor tal discendea, qual fatte
     esser veggiàn fra picciolini colli
     l’ombrose valli, in sua stagione amene,
     che ’l verno abbia di nieve allora piene.

69 I rilevati fianchi e le belle anche,
     e netto più che specchio il ventre piano,
     pareano fatti, e quelle coscie bianche,
     da Fidia a torno, o da più dotta mano.
     Di quelle parti debbovi dir anche,
     che pur celare ella bramava invano?
     Dirò insomma, ch’in lei dal capo al piede,
     quant’esser può beltà, tutta si vede.

La storia di Olimpia è una di quelle che maggiormente commuovono. Ma perdonatemi se non ne farò qui il riassunto. Per chi è curioso, ce se sono a miriadi sul web.

Ruggero portato via da Bradamante.
Ripreso da ebooks.adelaide.edu.au
Accanto alle dame belle, ci sono le damigelle in armatura, quelle valorose e indomite che ricercano la gloria. Bradamante, ad esempio, la cui unione con Ruggero darà i natali alla casata Estense, celebrata dall'Ariosto. E la sorella di Ruggero, Marfisa, che sembra non aver in mente altro che conquistare onore e gloria battendo quanti più cavalieri incontra per strada, poco importa se amici o nemici. Concentrate sui loro diversi scopi (Bradamante ritrovare Ruggero e Marfisa conquistare la gloria), assomigliano molto ai paladini dell'altro sesso. Hanno il corpo mascolino, tanto che nessuno le riconosce in battaglia; Bradamante, seppur dotata di una bellezza molto simile a quella di Angelica, viene scambiata per il fratello gemello Ricciardetto. Insomma, estremamente lontane dalla tipica dama dallo sguardo soave che dispensa sorrisi e parole gentili. Nonostante questo, si mantengono costanti, fedeli, gelose. Cosa che raramente fanno gli uomini.

E poi arrivano le streghe, le maghe, le meschine che cercano il loro profitto sia in amore che in potere, sempre e solo slealmente.

E Ariosto? Cosa pensa in realtà della donna?

Beh, non sembra averne sempre un'opinione molto positiva, anche se si scusa mille volte per questo con le dame che lo stanno ad ascoltare. In verità, sotto sotto, nonostante le invettive, Ariosto ama le sue donne. Arriva persino a difenderne l'adulterio, riconoscendo loro il diritto a godere degli stessi diletti amorosi che l'uomo si prende senza porsi problemi. Senza contare l'affetto commosso che traspare per alcuni dei suoi personaggi femminili. Non a caso sono queste, le dame a cui lui sembra più affezionato, quelle riuscite meglio, capaci di coinvolgerci ancor oggi.






lunedì 14 luglio 2014

Intrugli fantastici e tradizioni


Ludovico Ariosto, L'Orlando furioso, 1532.

Tiziano, Ritratto di Ariosto.
In un certo senso, la lettura dell'Orlando furioso non capita proprio così a caso come ho fatto credere nel post precedente. Seppur sia difficile coglierla, ha una sua ragione. Era già da un po', infatti, che mi era venuta voglia di leggermi un bel testo medievaleggiante, uno di quelli che fornisse un esempio del romance che Horace Walpole, lo scrittore di Il castello d'Otranto, prese a modello per la sua opera. Vi ricordate? Ne parlavamo qui, mentre rintracciavamo le fonti d'ispirazione del primo romanzo gortico.

L'Orlando furioso non è stato concepito proprio in pieno medioevo, ma le caratteristiche del romance ci sono ancora: il fantastico e il reale convivono insieme, sullo stesso piano, senza conflitti. Tutto diventa possibile: mostri ed eroi invulnerabili, maghi e santi, battaglie e assedi realmente accaduti, personaggi storici e mitologico-leggendari e altro ancora, tutti assumono un ruolo di pari dignità. Tutto diviene reale.

Questo non vuol dire che gli ingredienti siano mischiati alla rinfusa, mescolati insieme senza un preciso piano. Al contrario, mentre si legge l'infinita avventura degli infiniti protagonisti si ha la chiara visione delle tante tradizioni a cui Ariosto attinge. Così, durante lo scontro tra pagani e cristiani presso Parigi, sembra di scorrere una cronaca storica medievale in cui si elencano cavalieri e casate dei due schieramenti, le tecniche d'assedio e si ascolta persino il discorso che Carlo Magno avrebbe potuto davvero rivolgere ai suoi nel momento cruciale.
Oppure ritroviamo la celebrazione della casata D'Este, di cui Ariosto era al servizio, secondo le tecniche encomiastiche tradizionali.
Ci sono le storie d'armi e d'amore che dilettano le signore, naturalmente; ci sono leggende della mitologia classica riadattate per consentire ai paladini di trovarsi a loro agio in contesti anacronistici; ci sono rimandi al ciclo bretone (Merlino in testa agli altri). C'è poi la tradizione cristiana dei santi, degli angeli, dei vizi e delle virtù teologali - che a volte prendono il ruolo che gli dei avevano nei poemi greci. E tutti questi personaggi di tradizioni ed epoche differenti - pagani, mitologici, cristiani - convivono a braccetto senza mai urtarsi o meravigliarsi di tanta promiscuità. 
Ma non c'è solamente una distorsione temporale che permette a personaggi lontani nelle diverse tradizioni di convivere in un unico contesto epico. C'è anche una sorta di geografia mitica, una mappa tracciata del mondo conosciuto (ok, le Americhe ne sono ancora escluse, come è comprensibile) in cui gli eroi si muovono liberamente, anche se poi questa stessa mappa risulta distorta dal fantastico che rende le distanze percorribili in tempi e modi irreali.

Le meraviglie dell'Orlando furioso non si riducono a questo breve elenco. Ci sono mille altri spunti, intrecciati in modo superbo, mille altre sfumature da ammirare a bocca aperta. 

Quando gli avvenimenti diventano un po' troppo incredibili, perché accade di tanto in tanto che persino il suo autore si chieda se certe cose possano essere davvero bevute, Ariosto mette avanti le mani e, quasi a chiedere perdono per tanto ardire, tira fuori Turpino. Turpino, sì, il vescovo che aveva seguito Carlo Magno nelle sue guerre e che si dice avesse scritto la Historia Karoli Magni et Rotholandi. È dalla sua Historia che Ariosto sta prendendo fedelmente la materia del racconto, è lui il testimone oculare di tante imprese. Come si può dubitare, allora, che tutti questi eventi siano realmente accaduti?
E a chi porta le prove che determinati accadimenti di sicuro sono stati inventati, come accade nel caso dello scontro sull'isola di Lampedusa dei tre cavalieri mori Agramante, Gradasso e Sobrino contro i tre cristiani Orlando, Brandimarte e Oliviero (un certo Federigo Fulgoso gli fa notare che i luoghi descritti nel duello non sono compatibili con la reale geografia dell'isola), Ariosto spiega pazientemente che stiamo parlando di eventi successi almeno almeno settecento anni prima: il concorso di terremoti, cataclismi e rotolamenti di massi vari ha modificato la fisionomia dei luoghi, tanto che dove prima c'era una piana, quella su cui i sei si sono scontrati, adesso c'è un paesaggio frastagliato. Spiegata l'incongruità del caso, resta da spiegare come sapesse lui, Ariosto, il modo in cui il cataclisma avesse operato.

Forse qualcuno, nonostante tutti i chiarimenti ad arte che lo scrittore ci infila, dubitava ancora. Di sicuro Ippolito D'Este, mecenate a cui l'opera era rivolta, non sembrò ricevere il gentile omaggio con riconoscenza. Ma c'è da dire che, apparentemente, nonostante il bell'elogio che l'Ariosto gli intesse, egli non fosse uomo particolarmente portato per le lettere. Chissà se avrà mai trovato la forza di arrivare fino alla fine dell'amena lettura...


giovedì 10 luglio 2014

Reading in Progress: cavalieri e damigelle



Ci risiamo. Un'altra Reading in Progress. Ma questa volta è stato Daniele Imperi il colpevole! Lui e i suoi followers che, a proposito degli inarrivabili modelli letterari, quelli che non si potrebbero mai eguagliare nemmeno vivendo cento vite da scrittore, inseriscono così, nonchalantemente, un certo Ludovico Ariosto con il suo Orlando Furioso (1532).

Ripreso da Pinterest

Eccone un altro, direte voi, uno di quelli sempre menzionati e, nel miglior dei casi, letti solo per dovere. In effetti, la prima volta che mi capitò tra le grinfie, fu per dovere: un esame. Sì, avete capito bene, non è la prima volta che me lo leggo e no, non sono masochista.

Per chi non avesse ben presente o non ricordasse o avesse rimosso più o meno coscientemente l'entità dell'opera che ci apprestiamo a leggere, vi dirò che si tratta di un poema in ottave dal verso in endecasillabi, rimanti secondo lo schema AB AB AB CC.

Che ho detto?
Semplicemente che le strofe suonano così:
73
Così dicea l'imperator devoto,
con umiltade e contrizion di core.
Giunse altri prieghi e convenevol voto
al gran bisogno e all'alto suo splendore.
Non fu il caldo pregar d'effetto voto;
però che 'l genio suo, l'angel migliore,
i prieghi tolse e spiegò al ciel le penne,
ed a narrare al Salvator li venne.
 Questo è preso a caso dal canto XIV.

Di canti, tanto per avere un'idea della mole, ce ne sono 46, ognuno formato da un numero variabile di strofe che va da circa 80 a circa 130.

Prima edizione dell'opera. Presa da Wikipedia
A questo punto, mi verrebbe da pensare (e l'ho pensato!): ma che mi è venuto in mente di imbattermi in una lettura del genere?

Primo: è poesia! Ma non semplice poesia! È poesia del 1500!!

Secondo: non ha un inizio vero e proprio. Nel senso che attacca dove Boiardo, quell'altro che scrive gesta di Orlando innamorato (1483), aveva sospeso la sua narrazione. Senza contare che il tutto prende le fila dalla Chanson de Roland (seconda metà dell'XI sec.), caposaldo della letteratura cavalleresca di cui io non ho letto nemmeno il riassunto (vabbe', tutti conoscono almeno di fama Roncisvalle, Carlo Magno contro i mori e l'eroico Roland, retroguardia di Carlo magno, quello che per onore si lascia massacrare dai pagani e che solo con l'ultimo fiato del suo ultimo istante di vita richiama l'imperatore per offrirgli la vittoria su un piatto d'argento). Aggiungiamoci anche che, per tutta la narrazione, Ariosto dichiara che gli eventi narrati sono ripresi dalla cronaca di Turpino, arcivescovo di Reims morto nell'800 e fedele compagno di Carlo magno nella campagna spagnola contro i mori (778). Secondo alcuni, questo Turpino muore anche lui a Roncisvalle, secondo altri sopravvive e scrive una Historia Karoli Magni et Rotholandi, che in verità parrebbe del XII sec. e che non sembrerebbe raccontare proprio i fatti della Chanson de Roland. Ma su questo non mi azzardo a dire altro, non conoscendo il testo se non tramite il brevissimo riassunto che ne fa Wikipedia. 

Insomma, come minimo la lettura dell'Orlando furioso doveva aspettare quella di altri due-tre volumetti non indifferenti per contenuto e anche per lunghezza.
Ma anche più di due-tre, se poi ci vogliamo soffermare sul metro e sulle stanze, o sulla lingua etc., etc.

Ma facciamo così: facciamo finta di niente.
Parliamo di questo mostro della letteratura italiana così, senza pretese, notando solo le piccole cose, facendo finta di non trovarci al cospetto di una delle opere più alte della nostra tradizione letteraria. Prendiamolo come romanzetto d'intrattenimento, telenovela d'altri tempi. Perché, a stringere, il suo scopo era proprio questo: intrattenere il pubblico con storielle eroiche, amorose, a volte tragiche, a volte allegre.


Anticipando che tenterò di non tirarla troppo per le lunghe - anche se di cose notevoli ce ne sono, eccome se ce ne sono! -, vi invito a seguire le gesta di Orlando, paladino di Carlo Magno, che per amor di una donzella, la bellissima Angelica del Catai, perde la ragione fino a divenire un bruto invasato. Accanto a lui, incontreremo innumerevoli altri paladini combattuti tra guerre d'arme e d'amore, in uno spazio e in un tempo che vanno oltre la percezione consueta.

Ma tutto questo ed altro ancora nei post a venire.



domenica 6 luglio 2014

Stacchetto porcelloso






Peppa pig, alias Peppa Cochon nella versione francese, Peppa Porquinha in quella spagnola e, per fortuna, Peppa Pig e basta in italiano. Saggiamente i curatori hanno pensato bene che una traduzione che, nel migliore dei casi, suonasse tipo Peppa la Porchetta fosse meno orecchiabile di un Peppa Pig e basta. Peccato che poi hanno avuto la brillante idea di tradurre tutti gli amichetti di Peppa. E allora, a scuola con Peppa Pig ci sono Danny Cane, Suzy Pecora e Candy Gatto al posto di un Danny Dog o una Suzy Sheep o una Candy Cat. E il gioco di associare lettera iniziale del nome a lettera iniziale dell'animaletto che lo porta si va a far benedire.

Qui da noi la Peppa non è popolare come in Italia. Tuttavia, si riescono a trovare in biblioteca dei suoi libricini, che poi non sono altro che riassunti delle puntate televisive.

Beh, non vi parlo del libricino in sé perché, davvero, non ne vale la pena. Potete ben immaginare di cosa parli: una bambina normale, con i suoi piccoli episodi di egocentrismo, ma anche di dolcezza, che vive una vita da bambina normale e in cui tutti i bambini normali si identificano, anche se, alla fine, stiamo pur sempre parlando di maialini che adorano rotolarsi nelle pozzanghere di fango.

Vi dico solo che, nonostante sei mesi di disintossicazione, qui la sua memoria regna ancora indelebile. Per questo, appena trovato sugli scaffali, entrambe le figlie hanno afferrato il volumetto e si sono lanciate nell'improvvisazione del motivetto della sigla, regalando agli astanti una performance di alta... beh, diciamo di alta risonanza acustica. Per la felicità dei lettori, delle inservienti che strillavano i loro "shhhh" sottovoce e per quella della mamma che, afferratele entrambe per le collottole, si è catapultata verso l'uscita.

Quanti danni che fa questa Peppa Pig! Speriamo solo che non siano danni irreversibili. Non vorrei ritrovarmi le figlie adolescenti che fischiettano le canzoncine della Peppa sotto la doccia... un po' come succede alla loro mamma. 

Ok, basta giocare, adesso. Abbiamo finito con le letture da biblioteca. Preparatevi, perché ciò che ci aspetta è un'esperienza di lettura che pochi hanno il coraggio di affrontare.

E adesso che vi ho terrorizzati ben bene, mi concedo un ultimo episodio di Peppa Pig prima di andarmene a letto.
Buona notte.


mercoledì 2 luglio 2014

Pane, lievito e nostalgia




The Art of baking with Natural Yeast di Caleb Warnock e Melissa Richardson (2012).

E questa non ve l'aspettavate, vero?
Ebbene sì, mossa da un'incredibile nostalgia per il buon pane di casa nostra e ritrovandomi questo libricino dai colori caldi e dalle immagini familiari tra le mani, non ho potuto esimermi dal portarlo a casa con me.
Mi poteva andare peggio. Perché nel tentativo di non essere il solito libro sul pane, il volumetto ti insegna a fare il lievito partendo da semplice acqua e farina, coltivando l'impasto naturale nel frigo di casa.
E ti insegna anche mille altre cosette sulla fermentazione (si chiamerà così?), sul grano, sulla storia del pane e poi, solo alla fine, su come realizzare la buona ciabatta che tanto agognamo.

Il tutto è scritto con un tono talmente incoraggiante e cordiale, che uno si convince di potercela fare. E allora prendiamo un po' di farina, un po' di acqua e mescoliamo, mescoliamo, mescoliamo...
Ma poi arriva il marito con il suo bell'impasto già lievitato (lui, il furbo, non ha aspettato dalle tre alle infinite settimane per avere il lievito naturale, ma ha usato quello in polvere del supermercato!) e allora mi lascio corrompere e invece di continuare l'esperimento, mi frego una pallottola di pasta lievitata, la infilo nel frigo e... mi dimentico di nutrirla! Essì, perché i microcosini dell'impasto devono essere nutriti a suon di acqua e farina una volta ogni tanto. I miei non sono stati troppo fortunati: si sono beccati una pessima coltivatrice e nel giro di una settimana sono finiti nello scarico.
Eh, no, miei cari Caleb e Melissa, nonostante il vostro piacevole libricino, non c'è molto da fare con me: il lievito lo compro, che é meglio.


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