venerdì 21 novembre 2014

La resa



Walter SICKERT Ennui. Da nga.gov.au

Baudelaire nella sua introduzione a Les fleurs du mal, scrive:
Mais parmi les chacals, les panthères, les lices,
Les singes, les scorpions, les vautours, les serpents,
Les monstres glapissants, hurlants, grognants, rampants,
Dans la ménagerie infâme de nos vices,

II en est un plus laid, plus méchant, plus immonde!
Quoiqu'il ne pousse ni grands gestes ni grands cris,
Il ferait volontiers de la terre un débris
Et dans un bâillement avalerait le monde;

C'est l'Ennui! [...]
Che dovrebbe suonare così:
Ma fra i lupi, le iene, i falchi e le pantere,
le scimmie, gli sciacalli, gli scorpioni, i serpenti
che urlano e grugniscono, giostrando in turpi schiere
entro il serraglio infame dei nostri traviamenti,
uno ve n'è, più laido, più maligno ed immondo!
Sebbene non accenni un gesto né un bisbiglio,
vedrebbe volentieri crollare l'interno mondo
e inghiottirebbe il globo con un grande sbadiglio:

è la Noia!  [...]
Del resto, anche San Benedetto, mille e più anni prima di lui, avvertiva nella sua Regola:
L'ozio è nemico dell'anima, [...]
 (Capitolo XLVIII - Il lavoro quotidiano; dalla Regola di San Benedetto).

È vero, l'ozio porta alla noia e la noia guasta l'anima, la incupisce e la intristisce, fino a costringere l'individuo a cercare degli escamotage per sfuggirle: trucchetti che spesso non fanno altro che gettarlo ancor di più nella desolazione.
Baudelaire cerca rimedio gettandosi nei suoi universi poetici, gongolandosi in questa elegante Ennui che lo fa soffrire, ma che allo stesso tempo lo eleva a poeta, essere guardato malignamente dagli uomini, ma vicino allo sguardo di Dio. Essere consapevole di questo non lo aiuta un granché, ma almeno lo spinge a fare qualcosa: a scrivere.
San Benedetto, nel tentativo di non lasciare l'anima in balia dell'ozio, prescrive una rigida "tabella di marcia" per i suoi monaci, i cui giorni vengono scanditi da lavoro, preghiera e studio.

Certo, la noia non nasce solo dall'ozio. Anche un essere pienamente occupato può sentirsi schiacciato dalla monotonia sbaragliante e soccombere ad essa. Ma, a ben vedere, anche in quel caso è l'incapacità o l'impossibilità di valorizzare il tempo a proprio gusto che genera il senso di disagio. Sempre e solo una questione di tempo sprecato, insomma.

E quando, invece, si è sopraffatti dall'assenza di tempo?
Mettiamo che in una giornata bisogna dedicarsi a mille cose, essere assorbiti da mille situazioni in cui è doveroso immergersi e dare tutto di sé. E mettiamo che non si stia parlando di grandi personaggi del passato, ma di una lettrice media: io, ad esempio.
Ozio, noia nel quotidiano? Miraggi!

Anche in questo caso ci si può sentire sopraffatti da un'imperante frustrazione. Ci sono tante cose che si vorrebbe fare, creare, studiare e tutto, invece, si proietta in un tempo futuro che non arriva mai.

Immagine da semplicementevincente.blogspot.sg
Come ciliegina sulla torta, spesso sento ripetere: "Se vuoi farlo, lo trovi il tempo."
No, se il tempo non c'è, non c'è. Perché, a volte, non dipende da noi.

Ed in questo caso, allora, oltre che navigare in mari di frustrazione, cosa si fa?
Ci si piega alle esigenze.

Tutto questo pappone per dirvi che per un attimo ho pensato di chiudere il blog. Ormai sono settimane che mi scapicollo per star dietro ai post, alle letture e alla programmazione, riuscendoci a mala pena e pure male. Le idee non mancano, ma bisogna trovar tempo di approfondire, di studiare. Perché questo mio angolo non è nato solamente per raccontare le mie letture (anche, ma non principalmente). È nato per incentivare me stessa ad approfondire, per giocare a studiare. Ma se il pubblicare a scadenza prestabilita diviene più importante dell'approfondire l'argomento, allora questo gioco non ha più senso.

Tuttavia, rinunciare completamente mi toglierebbe parte del divertimento. Il blog, se vogliamo, è la spinta che mi porta a scavare, che fomenta la mia curiosità. Far sapere a voi cosa scopro mi spinge alla caccia al tesoro con più gusto.

E allora arriviamo al compromesso.

Non desisto, ma rallento, mi arrendo a ritmi un poco più sonnacchiosi. Mi regalo del tempo in più sulla scadenza di pubblicazione e ancora una volta allungo le pause: non più un paio di post alla settimana, ma uno solo, di valore.

Se, quindi, non mi vedrete più troppo spesso in giro, non pensate che io abbia gettato la spugna. Sono sempre qui, a rimuginare e leggiucchiare e scribacchiare impressioni. Ma con più calma, con maggior riflessione. E chissà che anche la qualità del blog non migliori un pochino...




lunedì 17 novembre 2014

Stacchetto riflessivo



A volte uno si chiede: perché quella storia? Perché ho sentito il bisogno, in quel momento, di leggermi quel romanzo e non un altro? Perché davanti ad una libreria bassa, a casa della bambina dormiente, ho preso Christine in mano e non il diario di Anna Frank?

Non sono l'unica a chiederselo. Ogni tanto la domanda se la fanno un po' tutti e a seconda dello spirito con cui viene pronunciata prende più ampio respiro, cambia punto di vista e si interroga anche su altro. Ad esempio, "perché non riesco a farmi piacere quel libro, in questo momento? Eppure dovrebbe interessarmi...". O ancora: "Cosa spinge il lettore a leggere? Che cosa cerca in quel particolare libro o, in generale, nella lettura?"

Da gruppodilettura.wordpress.com

E, ogni tanto, compaiono risposte travestite da verità assolute. Come questa, trovata su writerunboxed, uno dei siti americani per scrittori più accreditato:
I lettori vengono (a leggere i romanzi) non per quello che sembra logico, chiaro e ovvio - bella scrittura, plot ingegnoso, una voce fresca e così via. I lettori vengono per quello che c'è sotto la superficie. [...] Cerchiamo utili informazioni che ci dicano come navigare attraverso situazioni in cui non siamo ancora capitati e che ci forniscano un nuovo sguardo su quelle in cui siamo già passati. Per questo ci sono una serie di attese attraverso cui inconsciamente valutiamo ogni storia - attese che non hanno nulla a che fare con il saper "scrivere bene".
Quindi, in quel particolare periodo della mia vita in cui tra Christine, la macchina infernale (1983) e Il diario di Anna Frank (1947) senza esitazioni ho scelto Christine, sono stata spinta a tale atto dal desiderio sotterraneo di capire come si affronta l'evenienza in cui ti capita di aver a che fare con una macchina posseduta. O con un amico ossessionato da una macchina più o meno posseduta, o con un figlio adolescente col pallino dei motori - posseduti. 

Mmmm...
Sarò l'eccezione che conferma la regola, ma non credo di leggere per comprendere meglio le dinamiche del mondo che mi circonda o delle situazioni in cui capito. Forse leggo anche per imparare qualcosa, ma non in quel senso lì. Se così fosse, le mie letture si rivolgerebbero in ben altre direzioni.

Il segreto segretissimo della lettrice media è che lei legge semplicemente per divertimento. Possiamo anche dire per "evasione", ve lo concedo. Perché capita che a volte, intrappolati nel piattume di situazioni sempre uguali o problemi che opprimono oltremodo, faccia piacere tuffarsi nei problemi di qualcun altro, possibilmente opposti ai propri, e vedere come va a finire. E se questi problemi sono anche raccontati con maestria, tanto meglio, il viaggio sarà più eccitante. O forse dovrei dire che questa è una delle cause che rendono il viaggio eccitante.

Questo...
... o questo?
Così, calarsi nelle braghe di un adolescente sfigato e butterato che, per raggiungere il colmo della sfiga, si imbatte nella macchina infernale, dona una nuova vibrazione al piattume della vita adolescenziale in cui si spera che qualcosa accada, ma in cui alla fine non accade mai nulla. Questo è il vero motivo per cui mi sono ritrovata con Christine tra le mani e non Il manuale della perfetta Baby sitter.

Che poi, grazie alla bravura dello scrittore, questo stesso romanzetto sia riuscito a divertirmi anche in età meno acerba, beh, valorizza ancor più l'ipotesi che i libri non si leggono solo per fare esperienza, come qualcuno sembra voler sottolineare ogni volta che cerca di incoraggiare i non lettori a diventarlo, ma per trarne piacere anche attraverso il godimento dell'arte del saper scrivere bene.

Un hobby, niente più.

Niente elevazioni spirituali per il solo fatto di decifrare lettere in parole da un volumetto rilegato, niente meriti sovraumani o altri ameni fini spirituali: puro e semplice divertimento.

A questo punto, spesso mi sono chiesta: e allora, perché insistere così tanto affinché altri si approccino a questo hobby?
Tanto lo sappiamo, leggere non vuol dire accrescere la propria cultura. Non leggere come lo si fa al giorno d'oggi. Basta scorrere la lista dei Best sellers per rendersene conto.

Ma ve lo concedo, basta con le liste per il momento. Guardiamoci intorno e vediamo un po' da dove ripartire.


mercoledì 12 novembre 2014

Christine: the movie



E come sempre, ad un bel romanzo, specialmente d'azione, segue un film più o meno bello.
Ed infatti nel caso di Christine non fa nemmeno in tempo ad uscire il romanzo che - zack, Carpenter ci fa un film (1983).



Di differenze dall'originale ce ne sono. Diciamo che, forzati dall'esigenza di rispettare i tempi del grande schermo, e magari anche di semplificare il tutto, il regista e gli sceneggiatori rigirano un po' la storia, a volte perdendo molto più di quello che acquistano.
Ma a questo dobbiamo rassegnarci.

Se volete saperne di più, ho trovato questo sito che ne parla ampiamente, davvero interessante: www.allpar.com. Se l'inglese vi è ostico e siete curiosi di sapere quali sono, ad esempio, le differenze tra romanzo e film, o la storia di una delle 23 Fury che sono state impiegate per girare Christine, fatemi un cenno e cercherò di provvedere con una versione italiana. ; )

Per oggi è tutto. Lo so, un post veloce veloce. Perdonate la concisione.

E ora, vediamo che stacchetto ci si può tirar fuori...



sabato 8 novembre 2014

Christine: ieri e oggi



Ma cosa ci trovai in quel romanzetto dell'orrore che parla di macchine - argomento, diciamolo, di un soporifero... - e di scheletri al volante?
Di sicuro qualcosa di potente, se poi è riuscito a condizionare il mio destino di lettrice.
All'epoca non ero in grado di capirlo coscientemente. Mi rimaneva un odore, un sapore che ritrovavo immancabilmente in ogni opera di King, piacevolmente familiare.

E oggi?
Oggi lo rileggo con uno sguardo più critico, più istruito se vogliamo. Riesco a vederne i punti di forza, ma anche i punti deboli, quelli che mi fanno storcere un po' la bocca (e ce ne sono). A volte lo trovo superfluo nelle sue elugubrazioni, a volte poco coerente. Eppure, ancora una volta, mi piace immergermi nel mondo di Christine, mi ci sento a casa, con quello stesso odore e sapore. E ancora mi è difficile definire da cosa questa sensazione prenda forma.

Difficile, ma forse non impossibile.


Da dove viene, ad esempio, questa familiarità?
L'ambiente descritto non è un ambiente particolarmente vicino alla mia esperienza personale, ma neanche lontano. Ci troviamo a contatto con persone normali, che vivono in residenze normali, con rapporti normali e problemi assolutamente normali, almeno fino ad un certo punto. Eppure c'è qualcosa di avvolgente e intricante che potenzia l'identificazione del lettore con i personaggi. Forse è quel modo di raccontare e mostrare dettagli che danno subito l'idea non tanto della situazione o dei caratteri, ma dei rapporti tra di loro.

Ad esempio: Arnie, il ragazzetto sfigato che acquista la macchina infernale, ci viene descritto da Dennis, il suo migliore amico. Cosa dice di lui? Ok, è bruttino e suscita un desiderio inconscio di prenderlo a sberle. Però, è anche uno in gamba, perché sa sempre cosa fare nelle giornate di pioggia, quelle in cui ti toccava stare a casa. E sa come costruire un formicaio, gioco che ha entusiasmato una loro estate intera. Questi dettagli ti fanno vedere non solo l'ingegno apprezzabile del nerd, ma anche la sua solitudine: niente giochi all'aperto con i ragazzini del quartiere, niente partite di baseball, niente gruppo. Solo Arnie e Dennis.
Dietro, come uno spettro, vediamo la famiglia di Arnie: cortese ma freddina, contenta di un figlio che non crea problemi e che crede che la figura di Dennis, da sola, supplisca ampiamente al bisogno di amicizie del figlio. Ma anche questo, almeno fino ad un certo punto, lo intuiamo, per poi averne conferma quando anche i genitori di Arnie acquistano una voce e si fanno conoscere attraverso il loro solito metodo: raccontando le loro relazioni, le loro esperienze.

Dall'altra parte c'è Dennis, descritto attraverso i battibecchi doverosi che ogni fratello maggiore ha con la sorellina minore, una mamma che per hobby gioca a fare la scrittrice, sostenuta dalla famiglia, anche se padre e figlio non possono fare a meno di ridacchiare tra loro delle storie che scrive, e un padre che agli occhi di un Dennis adolescente inizia per la prima volta a mostrare i segni di una vecchiaia incalzante. Quanti adolescenti hanno vissuto una simile epifania? O un simile rapporto di odio-amore con il fratellino minore? O di complicità segreta con uno dei genitori a discapito dell'altro?
Tutti questi dettagli, tutto questo raccontare di rapporti più che di singole persone, tutto questo rende i personaggi estremamente vividi, familiari.

Poi arriva l'evento fatale che distrugge gli equilibri. E ancora una volta, alla descrizione dei fatti viene sempre aggiunta quella dei rapporti tra i personaggi primari e secondari, attraverso ricordi e racconti di eventi passati. Così scopriamo il loro carattere non attraverso il modo in cui si comportano adesso, ma attraverso ciò che hanno vissuto o che sognano o che altri raccontano di loro, che siano personaggi positivi o negativi. Naturalmente, questo li avvicina al lettore che inevitabilmente si affeziona. L'unico che veramente non ha la possibilità di raccontarsi è il cattivissimo, il primo proprietario della macchina posseduta , forse perché il Male fa davvero terrore solo fin quando resta assoluto. Se ci infiliamo l'umanità, diventa comprensibile e, quindi, meno terrorizzante.

Ora, c'è un altro punto che per anni io stessa mi sono intestardita a professare: King ha belle idee, peccato per il suo modo di scrivere...

Ma scrive poi così male?

Prendiamo un esempio:
"I only hope it works that way," she said, and put her head on my chest. I touched her hair.
 "Spero solo che funzioni," disse lei, posando la sua testa sul mio petto. Le toccai i capelli.
Ok, due frasi freddine, rigide.
Un romanzo fatto tutto così mi farebbe rabbrividire, anche se non di paura.
Ma il fatto è questo: Christine non è affatto tutta così. Queste due frasi vengono messe lì come chiusura ad un capitolo in cui avviene poco e niente di sostanziale: assistiamo alla preparazione allo scontro finale. Ma a livello emotivo, questo stesso capitolo è un turbinio di sensazioni: terrore, dolore fisico, senso si colpa, bisogno di conforto, ansia, tristezza, tenerezza. E nel momento in cui tutto è pronto e non ci resta che aspettare, la staticità dello stile di queste due ultime righe rafforza il contrasto tra l'immobilità dell'attesa e il turbinio emotivo descritto fino a poche righe prima, mentre un senso di inevitabilità prende forma nell'ombra.

Tutto sommato, troppo scarso non sembra, vero? Ma, del resto, se King è così famoso e migliaia di aspiranti scrittori leggono il suo On writing in cerca di una guida, un motivo ci sarà.

Di certo questo non basta a spiegare la mia fascinazione di allora. Probabilmente il fatto di essere stata una lettrice giovane e inesperta ha enfatizzato molti dei punti di forza del romanzo, lasciandone magari in ombra i difetti. Eppure mi fa piacere, a distanza di anni, rendermi conto che, tutto sommato, le sensazioni che avevo provato allora sono sopravvissute alla prova del tempo.

Qualcosa mi dice che non tutte le letture che all'epoca trovai interessanti potrebbero reggere ad una simile prova del fuoco.


martedì 4 novembre 2014

Antefatto: quando i bambini dormono



Tanto tempo fa, durante il passaggio tra la scuola superiore e l'università, mi ritrovai a fare la baby sitter per un po'. La bambina a cui badavo era nell'età in cui non si è ancora abbandonata l'abitudine a due pisolini: uno a metà mattina e uno pomeridiano. Va da sé che nel tempo in cui lei dormiva, la baby sitter si guardava intorno con aria annoiata, senza saper bene come passare quel paio d'orette (spesso anche di più) in una casa poco familiare.

In quella stessa casa c'era una piccola libreria. No, niente di eccezionale: una di quelle basse, a tre scaffaletti. Più un mobile di arredamento che non una vera libreria. La mamma della bimba l'aveva comprata in una vendita a ribasso, con già dentro tutti i libri dall'aria importante e dai titoli dorati.

Presto detto: quella libreria in bella vista mi tentava. Inginocchiata sul pavimento, durante uno degli interminabili pisolini, mi misi a sbirciarne i titoli, cercando nomi conosciuti. All'epoca non potevo considerarmi una grande lettrice, anche se credo di poter dire di aver letto più io, in quegli ultimi due anni di professionale, che non tutta la mia classe messa insieme. Avevo avuto incontri ravvicinati con un D'Annunzio, un Dostoevskij, un Tolstoj e qualche Freud grazie alla biblioteca scolastica, anche quella poco più di uno sgabuzzino; eppure, sebbene avessi apprezzato la sostanza di questi capolavori, non avevo ancora sviluppato il gusto della lettura.

Adesso: immaginatemi lì, quasi prostrata davanti alla mini-libreria, presa a controllare le coste: Il signore delle mosche... La linea d'ombra... L'amante di Lady Chatterly... Christine, la macchina infernale - Stephen King...

Stephen King.

Anche se siete davvero a digiuno di letture, sapete sicuramente chi sia Stephen King. O almeno di che genere tratti. Ed io amavo quel genere, anche se conosciuto solo tramite la televisione.

Sfilai con attenzione Christine dal suo scaffale e, altrettanto prudentemente, ne iniziai la lettura. Quel "prudentemente" divenne "a rotta di collo" in poche ore e mi ritrovai talmente persa nella lettura da essere quasi incapace di fermarmi. Dopo qualche giorno di agonia in cui, con malcelata riluttanza, abbandonavo il volumetto sullo scaffale al momento di tornarmene a casa (momento che spesso coincideva con il risveglio della bimba dal secondo pisolino), la mamma della pargola mi disse: "portatelo via con te, me lo ridai quando l'hai finito".
Adesso che ci penso, quella è stata anche la prima volta che qualcuno mi ha prestato un libro.


Come spesso accade ai lettori, anche  a quelli in erba, Christine fu fagocitata in quattro e quattr'otto. Rimessa al suo posto con un pizzico di maliconia, mi sentii subito un po' sperduta. Come colmare quel vuoto? Ma naturalmente cercando un sostituto.
La bassa libreria sembrava ammiccare verso di me, quasi fosse posseduta anche lei da qualche potere oscuro e io, proprio come Arnie, il protagonista di Christine, mi lasciai convincere al volo. Non ricordo quale fu il volume successivo, ma ricordo di averli letti quasi tutti. Pochi furono quelli che non apprezzai affatto, ma anche quelli furono letti doverosamente fino alla fine.

Questa è stata l'origine della mia ossessione per i libri.
Buffo, vero? Tutto è nato non da un grande classico, non da un capolavoro moderno, ma da un racconto dell'orrore nemmeno troppo importante di Stephen King.

Ma cosa ci trovai, allora, di tanto esaltante? Cosa ci troverei ora, a rileggerlo, dopo tanto tempo?

Come dicono i cartoni animati giapponesi: to be continued...



venerdì 31 ottobre 2014

La Lista



A questo post è da un pochino che penso: da quando ho letto questo della Clarina. E, per essere più precisi, da quando ho sbirciato ai commenti che sono seguiti.

In poche parole, parliamo di liste.

mondeautochtone.blogspot.sg
Io ho un doppio istinto verso le liste: da una parte le rigetto.
Prendi le liste tipo: i cento libri che devi leggere prima di morire. Un bravo lettore incuriosito osserva la lista con mille aspettative, segue i titoli con fiduciosa creduloneria (mi daranno delle letture mozzafiato, non come le mille ciofeche che trovo sui primi scaffali delle librerie) e, nel miglior caso, ne riconosci la metà, ne hai letti la metà della metà della metà e ti dici che, tutto sommato, avresti anche potuto fare a meno di leggerli, perché così fondamentali, per te, non lo sono stati.

Oppure: le dieci cose che devi sapere per diventare un buon lettore/scrittore/narratore, eccetera eccetera. Leggi i punti con attenzione e scopri che sono sempre i soliti luoghi comuni.

Nonostante questo, capita che in determinati momenti della mia esistenza io senta il bisogno di aggrapparmi alle liste, specialmente quelle che iniziano con i numeretti belli chiari seguiti da un trattino o puntino e che continuano fino ad un massimo di... diciamo dieci. Non meno di cinque, non oltre i dieci. Sì, liste essenziali e ordinate, perché la lista, almeno per me, è l'occasione di gettare via gli abiti chiusi ad ammuffire nell'armadio e cominciare a fare le valigie per il prossimo viaggio. E siccome io viaggio sempre con valigie leggere, anche i miei punti lo devono essere.

Questo non vuol dire che poi non mi piaccia andare a leggere le didascalie tra i punti. Mi piace, anzi, capire da dove prende forza l'indispensabilità dei vari numeretti.

Questa la premessa. E, se due più due fa quattro, ormai si è capito cosa seguirà.

Ma UNA LISTA, naturalmente!

Eggià, anch'io frego la solita vecchia idea che probabilmente gira per il mondo da... beh, almeno tanto tempo quanto le catene di sant'Antonio; e, per fare le cose fatte in grande, non mi limito a riportare il numeretto e il titolo del libro, ma ci faccio una piccola rubrica, tipo quella delle Reading in Progress.
Cosa ci troverete dentro? Dai, non facciamo gli ingenui: le opere che mi hanno segnata. Le impressioni o le spinte che mi hanno dato allora, quando per la prima volta le ho incontrate, ma anche le considerazioni che adesso, a distanza di anni e dopo attenta rilettura, mi scatenano.

Prima di iniziare, però, qualche avvertenza:
  • promessa solenne: nessuno dei titoli che comparirà in questo spazietto sarà uno show-off. Niente cose del tipo: "Modestia a parte, all'età di 12 anni ho letto Delitto e castigo e l'ho trovato grandioso". Banditi, quindi, tutti quei testi che un lettore di buon gusto DEVE leggere in favore di quelli che sono stati realmente illuminanti, anche per vie traverse. I miei non sono stati tanti, vi avverto, e non sono nemmeno illustri. Ma, del resto, non tutti i lettori sono capaci di essere folgorati dalla grande letteratura...
  • Visto che siamo capitati in pieno Halloween, il primo romanzo della lista avrà un sentore in tema. Non è il primo in ordine cronologico ad essere stato letto e va da sé che neanche i prossimi rispetteranno una consecutio temporum sensata.Tutto avverrà sull'impulso del momento.
E... ehm... beh, mi sembra tutto. Un po' misera come prima lista, vero?
Ma non ci abbattiamo subito, vediamo come procederà quella vera e propria.



lunedì 27 ottobre 2014

Stacchetto gucciniano



Oggi lo stacchetto sarà fulmineo.




Guccini non è mai stato uno dei miei preferiti. Ma come rimanere impassibile davanti a questa? Questa canzone, anche lei una fiction in miniatura, a suo modo, rappresenta nella sua brevità tutto un periodo dalle mille sfaccettature, ognuna di esse raccontata a dovere. E il tutto in 5 minuti!

Cosa dire di più?

Buon ascolto.

 

giovedì 23 ottobre 2014

Quando l'opera si affaccia sulla storia



Possiamo dirlo con leggerezza?
Quando l'opera si appropria della storia, di solito, fa un gran casotto!

Ma l'opera di per sé è una forma d'arte contorta, spesso tronca, se vogliamo. Sì, perché non è solo componimento musicale, non è solo recitazione scenica e non è solo espressione lirica. È tutto questo e nel tentativo di esserlo, non raggiunge la perfezione in nessuno di questi generi. Il testo è piegato alla musica, la composizione alla scena, la voce costretta a seguire le contorsioni di pose teatrali e, viceversa, la recitazione costretta a inseguire scale di impensabili altezze.

Questo non vuol dire che l'opera non raggiunga dei sublimi traguardi o che non sia degna di ammirazione profonda. Al contrario!
Vuol solo dire che, anche quando essa riesce a mescolare al meglio le sue componenti fino a farle divenire un tutto organico di notevole valore, l'una o l'altra di queste ultime, se non tutte, devono pagare un prezzo a favore dell'insieme.

Mettiamo, ad esempio, la storia vera raccontata a suon di arie.
Prendiamo un'opera a caso, I Goti di Stefano Gobatti, libretto di S. Interdonato, e seguiamone la storia che, guardacaso, ricalca quella in cui ultimamente ci siamo imbattuti: la storia dei Goti.

Confrontiamo, poi, le due storie: quella vera e quella rimanipolata.

All'indomani della morte di Teodorico il grande, il barbaro che ha trascinato tutto il popolo dei Goti in Italia e che ha regnato su italiani e goti per una trentina d'anni con sapienza e onore, si pone un piccolo problema di successione: il nipote Atalarico, erede legittimo, è ancora un bambino. Diventa re, come è giusto che sia, ma gli viene assegnato un reggente fino alla maggiore età: sua madre Amalasunta.

Atalarico non era tagliato per diventare un gran re. Un po' ci si mettono i maggiorenti goti che non amano molto le idee filo-romane della regina e che, quindi, trovano il modo di sottrarre il fanciullo all'educazione classica che gli voleva impartire Amalasunta in favore di una più guerriera. Un po' ci si mette il carattere fiacchetto del ragazzo che si lascia ben volentieri educare secondo i principi delle rozze soldatesche: eccessi, eccessi e ancora eccessi. Fatto sta che, ancor prima di raggiungere l'età per reclamare il regno, Atalarico muore proprio a causa degli eccessi.

A questo punto, la regina Amalasunta si trova in difficoltà. Prima di tutto perché gli usi dei goti parlano chiaro: donne, al trono, non possono andarci. E lei sa che qualunque dei nobili Goti una volta salito al trono, avvierebbe una politica contraria a quella portata avanti da suo padre prima e da lei dopo, quella che creava prosperità nel paese grazie ad una politica di uguaglianza, non di oppressione, tra popolo goto e popolo romano.

Insomma, Amalasunta teme. Per evitare di essere destituita, associa al regno un suo cugino, un certo Teodato. Uomo colto ed eccessivamente avaro, pavido e ignorante di cose di guerra, questo nuovo re gioca sporco e nonostante i giuramenti di non interferenza con le cose politiche, lui ci mette il naso, diventa avido di potere e fa imprigionare la regina. Poi arrivano i nobili che chiedono vendetta per spargimenti di sangue di loro parenti avvenuti in precedenza per ordine della stessa Amalasunta e Teodato lascia fare. Amalasunta viene uccisa per vendetta e Giustiniano, imperatore d'Oriente che si poneva a protettore della regina, prende la palla al balzo e dichiara guerra ai traditori della famiglia dei reali goti. Inizia la guerra.

Questi gli eventi raccontati liberamente ne I Goti. Anzi, no, sarebbe più corretto dire rivisti. Perché d'un tratto i tempi dell'opera concentrano i tempi storici in un vortice rocambolesco di eventi semi-veri.

Così assistiamo alle trame di Teodato per assassinare Atalarico, fatto completamente di fantasia. Le scene si aprono proprio con l'assassinio del re e la dichiarazione sfacciata da parte di Teodato di voler salire al trono e vendicarsi di anni e anni di maltrattamenti, anche questa cosa che non trova fondamento nella storia reale. Arriva la regina Amalasunta, innamorata e ricambiata da un romano di rango non proprio paritario, che però è costretta ad acconsentire al matrimonio con Teodato, l'infido. Matrimonio che non può aspettare se non il giorno seguente.

Insomma, per farla breve: Amalasunta, col cuore spezzato, cede alle ragioni di stato, sposa Teodato mentre piange la morte del suo adorato figlio e la separazione dall'amante romano. Poi viene tradotta nel luogo di prigionia e impazzisce. Arriva il suo amante che tenta di liberla ma, come è giusto che sia, entrambi muoiono felici e contenti. E tutto questo dopo una tonnellata di presagi e visioni, che non guastano mai.

Io non sono riuscita a vedere l'opera. Ho solo letto il libretto e già lì, oltre ad echi di eco risalenti ad esempi più illustri, mi sono sentita un pochino in imbarazzo. Ma questo sicuramente è perché, come dicevo sopra, non si può giudicare un'opera dal solo libretto, ossia da una sola delle sue componenti.
Però, poi, leggendo i commenti sul web, mi è venuto il dubbio che anche il resto non sia proprio valevole di nota.

Se volete conoscere la storia de I goti, che io trovo anche buffa e che all'epoca (1873) fece molto rumore a causa di una serie di disguidi, andate a leggervi www.operamanager.it.

Per il resto, si avvicina Halloween. E, anche se è festa pagana, l'atmosfera che porta con sé eccita la voglia di altre letture...

Ma prima uno stacchetto musicale, uno di quelli che ci sta sempre bene.


domenica 19 ottobre 2014

Quando il self publishing si appropria della storia



Vi avevo già detto che i romanzi che trattano del periodo subito susseguente la deposizione dell'ultimo imperatore romano d'Occidente sono davvero pochi, vero?

Provate, provate a vedere con i vostri occhi. Andate su Amazon e digitate una qualsiasi parola che abbia a che fare con Goti, Teodoro, Giustiniano o uno degli altri protagonisti dell'epoca.

Lo sapevo, lo avete trovato anche voi, vero? Quel I Cavalieri del Crepuscolo (2013) di Marco Cristini.

Sì, parla dell'Italia durante il 500. E, come avrete intuito, è un romanzo auto-pubblicato.

Ecco, questo è il primo di quella nuova orda si romanzi senza padrini che popola ormai il web che mi capita sottomano. O meglio, no, non è il primo, se consideriamo quello di Chiara Prezzavento, L'itala Giuditta. Ma è senz'altro il primo che risponde ai miei dubbi riguardo alla bontà dell'uso e dell'abuso dell'auto-pubblicazione.

Perché uno scrittore non dovrebbe scrivere, correggere e pubblicare la propria storia da solo? Perché c'è il rischio di fregarsi con le proprie mani.

Ma aspettate, andiamo con calma.
Anche per voi è la prima volta che vi imbattete in un self-publishing di non professionisti? No, non acquistate il libro per capire di cosa parlo, ma continuate a leggere.

Siamo in un'Italia che solo da pochi anni è stata conquistata dai Longobardi. Per chi non lo ricordasse, dopo la guerra tra impero bizantino e goti, l'Italia cade sotto il dominio romano. Ma la pace dura ben poco perché, appena una quindicina di anni dopo la morte dell'ultimo re goto, arrivano i Longobardi. E questi sì che erano barbari!
Succede che proprio in questo periodo il sacerdote di una piccola comunità non meglio specificata si decide a scrivere la storia delle vicissitudini di una coppia di sposi, così, a carattere esemplare. Lui stesso in prima persona ci dice che le sue fonti sono state due manoscritti capitatigli tra le mani per caso: Chronica Amalasuntae reginae di Cassiodoro e De vita mea di Iulio Valerio Pupieno. Emtrambi i manoscritti sono fittizi. Ma se l'esistenza del primo potrebbe passare per credibile (Cassiodoro è stato davvero un personaggio storico molto vicino alla corte dei Goti e ad Amalasunta, loro regina), l'altro, quello che nelle intenzioni dell'autore dovrebbe rappresentare una sorta di diario intimo, non suona proprio "giusto". In epoca tardo romana, un diario che racconta non guerre o dissertazioni filosofiche o auto-celebrative, ma vicende amorose di due privati cittadini e che non si rivolge ad altri che ad una cerchia più che ristretta di parenti e conoscenti?
Mmmm...

Ma andiamo oltre e facciamo finta di niente. Sorvoliamo anche sul linguaggio eccessivamente sbrodoloso che il sacerdote impiega per osannare ogni tre linee la bontà del Signore (e qui bastava leggersi Gregorio magno con i suoi Dialoghi anche solo di sfuggita per rendersi conto di quanto un tale modo ossequioso sia un po' fuori luogo) e passiamo alle considerazioni narrative in cui lo stesso sacerdote, umile e pio, si imbatte.

"Come posso esporre il mio scritto?" si chiede fin da subito. "Che faccio, descrivo la storia della calata dei Goti, da cui tutto è iniziato? Ma no, sicuramente il mio lettore la conosce. E se non la conosce, ci sono tanti testi a cui poter fare riferimento."
Davvero???
Ehm... Sinceramente no, non credo. Perché, a parte la tradizione orale degli stessi Goti che raccontavano le loro imprese e discendenze, all'epoca c'era solo una storia scritta da Cassiodoro su tale popolo (origine, spostamenti e calata in Italia) e  sicuramente non veniva divulgata come lettura domenicale nelle piazze o nelle chiese. E poi, parliamoci chiaro, ma quante copie potevano esserci in circolazione? Di sicuro il lettore della sua storia (lettore! Suona così anacronistico l'uso di questo termine, qui) non avrebbe potuto procurarsi su due piedi un simile manoscritto.

"Oppure," aggiunge il sacerdote narratore, "potrei descrivere i personaggi, tanto per iniziare. Ma così tolgo al lettore il gusto di scoprirli pian piano, cosa che personalmente ritengo essere lo stimolo che spinge l'uomo a leggere qualsiasi opera letteraria."
E come darti torto, prete di campagna? Questo è lo stimolo che spinge ogni lettore MODERNO a leggere. Ma al tempo dei barbari?
Al tempo dei Dialoghi di Gregorio Magno o delle Guerre di Procopio, siamo sicuri che il lettore leggesse davvero solo per il gusto di leggere? E, visto che molto probabilmente lo faceva per dovere, studio o elevazione, siamo sicuri che non trovassero più comodo avere davanti a sé una struttura narrativa lineare e, se vogliamo, pragmaticamente noiosa? Onestamente, questa in cui si impelaga il narratore mi sembra tutta una questione, ancora una volta, anacronistica.

Diciamocelo chiaro e tondo, questa prima paginetta ha tutta l'aria di un manifesto delle intenzioni dello scrittore, non del narratore. Ed ecco che, allora, inizio ad avvertire un senso di vertigine: vedo doppio, l'autore e il narratore si confondono, gli spazi temporali dilatati cercano di riavvicinarsi sfidando ogni legge della natura, i lettori di riferimento e quelli reali si sovrappongono e io dubito: varrà la pena di leggermi un volume che si prospetta avere il doppio di pagine rispetto alla media e che parte in questo modo?

Ma poi uno si dice: siamo appena all'inizio dell'inizio, dagli un'altra possibilità. E ricordati! Parla della storia dei Goti...
Ok, seguitiamo, allora.

Ed ecco qua, nemmeno il tempo di riprendere coraggio che ci imbattiamo in una ripresa a volo d'uccello (non ripeterò qui che un narratore medievale se la sognava la ripresa a volo d'uccello come espediente narrativo, ma fate come se lo avessi detto): un gabbiano che, con perizia di archeologo, ti conta pure gli anni  che sono passati dall'ultima volta che il molo su cui svolazza è stato usato. Dopo una relativamente breve descrizione, ti inquadra due figure che chiacchierano tra loro e, anche se per ammissione dello stesso narratore il povero "pennuto" non poteva capirci un granché del loro dialogo, lui continua a farsi gli affari loro. A questo punto tocca al narratore riferire: un tizio corre sul molo verso un altro tizio che prega ai piedi di una statua raffigurante la Madonna. Il primo dice al secondo che gli dispiace disturbarlo mentre è in preghiera (ridiciamolo, in caso il lettore non lo avesse intuito, che l'uomo sul molo pregava), ma è appena arrivata una missiva importante dal palazzo reale. È la principessa in persona a scrivergli. "La lettera, infatti, non solo era ornata dal sigillo della figlia del re, cosa normale per la corrispondenza ufficiale, ma era stata scritta dalla stessa Amalasunta, come si poteva dedurre dalla calligrafia che Cassiodoro (il tizio in preghiera) conosceva molto bene."
Solo a me suona male?
Ma non abbiamo tempo di contemplare oltre la frase contorta. Ecco rifar capolino sulla nostra testa l'uccellaccio archeologo che, prima di far ritorno alle sue "ataviche attività", "avrebbe potuto scorgere, mentre le due figure si allontanavano, un raggio di sole nascente illuminare la statua e cospargerla di riflessi dorati."

Ok, a questo punto la mettiamo ai voti: quanti pensano che valga la pena di continuare questa lettura?



mercoledì 15 ottobre 2014

Quando la fiction si occupa della storia


Non so voi, ma io provo una particolare attrazione per i romanzi storici. Adoro andarmi a ricercare la vera vita dei personaggi per poi confrontarla con quella descritta dall'opera di fantasia. E più sono corrispondenti, più mi esaltano.
Certo, non dico che i romanzi storici debbano essere solo racconto storico, altrimenti mi butterei senza remore verso saggi e manuali di storia. Nonostante questo, se in uno di essi trovo delle incongruenze o delle inesattezze, ecco che un senso di disappunto mi assale. Almeno fino a quando lo scrittore non riesce a giustificare pienamente il perché di quella inesattezza.

Data la premessa, comprenderete perfettamente il mio spirito nell'approcciare Citadel of God (1959) di Louis de Wohl, tanto più sapendo che il periodo storico di cui si parla mi è abbastanza familiare. Sì, perché la cittadella menzionata è quella fondata da San Benedetto a Montecassino. E il periodo storico raccontato è quello del regno di Teodorico fino a Totila, pieno 500, guerre gotiche incluse. Solo per il fatto di essere uno dei pochi su quel periodo, questo romanzo va letto, no?

Quindi, se da una parte mi aspettavo grandi cose, almeno tante quante la storia ci racconta, dall'altra avanzavo nella lettura con quel fare sul chi-va-là, timorosa che prima o poi ci sarebbe scappata la scivolata.

Che cosa ho trovato?

Ho trovato un dipinto storico molto fedele. E quando non lo è, il motivo è ben chiaro e argomentato e quindi perdonato e accettato di buon grado. Ma, d'altro canto, a volte risulta talmente fedele alla vera storia che sembra quasi raccontata da qualcun altro. Da uno storico, ad esempio. Da Hodgkin, se vogliamo proprio dirla tutta. No, non che riprenda pari pari le sue parole, ma il filo della storia e alcune notizie fondamentali per far avanzare il tutto sembrano proprio seguire le suggestioni di Hodgkin.

Ho trovato anche un bisogno ingiustificato di raccontare usi e costumi che per un appassionato o un curioso possono avere un loro perché, ma per un lettore comune rendono solo più lenta la lettura.
Un esempio?
C'è un gruppetto di romani altolocati che si raduna in casa di un senatore, il più nobile e colto tra loro. Naturalmente durante l'incontro non mancano fiumi di vino a rallegrare le loro elucubrazioni. Ora, ad un lettore medio cosa interessa sapere che l'uso dei romani in simili occasioni era avere tre diversi vini serviti in tre diverse brocche più la brocca dell'acqua (con tanto di nomi dei vini!)? A me diverte il particolare se abilmente infilato con a seguito una ragione, una battuta, qualcosa che ne giustifichi la presenza, ma lì per lì non è venuto in soccorso nemmeno un pretesto che non fosse il puro piacere di raccontare particolarità d'altri tempi e il sospetto di trovarmi davanti ad uno di quei pedanti antiquari che provano piacere nel rimpinzare di più o meno inutili nozioni l'ascoltatore fortuito mi ha assalito. Per fortuna, ho dovuto ricredermi non troppo oltre. Infatti con l'avanzare dell'azione gli sprazzi antiquari scemano e il senso di utilità del narrato rende merito alle curiosità che ci vengono raccontate.

Ma, devo ammetterlo, in cammino ho trovato colpe ben maggiori: il carattere dei personaggi. A volte risultano proprio insulsi. Non che non abbiano le loro motivazioni. Quelle ci sono e, raccontate in un riassunto, avrebbero anche un loro potenziale. Ma quando poi vengono sviluppate... beh... diciamo che si poteva fare meglio. Al pari dei loro caratteri sono i loro dialoghi. Non c'è un minimo di giudizio nello spiattellare verità che forse dovevano essere tenute nascoste almeno per un altro po', nell'attesa di trovare il climax giusto. E la risposta a queste rivelazioni non è mai consona alla loro portata.
Uno si chiede, ad esempio, che gli dice il cervello ad un uomo che, tornando dopo anni di assenza nella casa della donna e dell'uomo che lo hanno accolto e cresciuto come uno di famiglia, come prima cosa saluta la donna e le rivela che la ama senza nessuna sorta o quasi di preambolo. E lei? Che fa? Nulla. Davanti alla passione del tizio non si scompone minimamente. Anzi, quando anche il marito, amato e rispettato, entra in scena, lei è più serena e vaga che mai.

Allora, direte voi, cosa resta di bello del romanzo?

Resta san Benedetto, il vero soggetto di cui l'autore voleva parlare. Sì, perché nonostante l'accurata ricostruzione, le trame parallele dei personaggi più o meno storici, i racconti di guerra, ossia nonostante i due terzi del romanzo, è chiaro che l'unica cosa che stava a cuore a Louis de Wohl era raccontare la storia di san Benedetto. "Bella scoperta", direte voi, "C'è scritto pure in copertina!" E avete ragione, anche se poi, come ho detto, la parte dedicata veramente al santo è minore rispetto a quella dell'inquadramento storico e delle storie parallele.
E adesso ammettiamolo: Wohl è davvero bravo nel caratterizzare il personaggio di san Benedetto. Riesce così bene a trasmettere la purezza, la passione, la statura spirituale e morale dell'uomo che ha segnato la storia della Chiesa (e non solo) che si riescono persino a dimenticare tutti i difetti elencati più sopra.

Ecco, se si potesse modificare un pochino tutto il resto e lasciare solo san Benedetto intatto, così come Wohl lo ha raccontato, questa sarebbe una delle letture più coinvolgenti ed emozionanti (per non dire commoventi) in cui io mi sia mai imbattuta. Così come è adesso, la potrei definire una lettura a tratti piacevole, con molti spunti interessanti e informazioni riguardo a un periodo storico - e un santo - di cui poco si conosce.

De Wohl ha scritto di altri uomini di Dio e altri periodi. Chissà, magari prima o poi lo incontreremo di nuovo parlando di altra storia o altri santi. Anche perché dalle recensioni che ci sono in giro, molti sembrano considerare Citadel of God come una delle sue opere meno appassionanti. Vedremo...


sabato 11 ottobre 2014

Stacchetto ravennate


Ci sarebbero così tante curiosità da raccontare intorno alle guerre descritte da Procopio, o alla corte di Giustiniano, o all'esercito romano dell'epoca...
C'è solo l'imbarazzo della scelta e tra questa scelta io mi sento davvero in difficoltà, perché non so proprio cosa proporvi.

E allora, che ne dite di dare una sbirciata ai mosaici di San Vitale?

San Vitale si trova a Ravenna, quella che all'epoca del regno di Teodorico, re dei Goti, era la capitale. In verità, già dal 404 l'imperatore Onorio vi aveva trasferito il centro di potere e i suoi successori romani e barbarici avevano continuato a risiedervi, evidentemente soddisfatti della sua posizione strategica. Solo quando durante la guerra gotica i bizantini si appropriarono della città, i goti si trovarono costretti a scegliere un'altra capitale. La scelta cadde su Pavia e tale resterà anche per il regno dei Longobardi, i prossimi sulla lista degli invasori a calare giù da noi. O i secondi, se consideriamo i greci invasori. E io lo farei, visto il modo in cui la popolazione e le terre italiane, indipendentemente dalla loro etnia d'origine, furono trattate.

Ma, per tornare a Ravenna, qui, tra il 525 e il 547, ossia tra il regno di Teodorico e gli anni di guerra, fu costruita San Vitale, una chiesa di rito cattolico che ancora oggi è famosa per i suoi mosaici.

Esterno di San Vitale, Ravenna. Immagine di Wikipedia



La sua pianta è particolare, ricorda le chiese bizantine e il suo interno... beh, mozzafiato.


Qui si trovano anche i famosi mosaici di Giustiniano e Teodora che ho postato qualche tempo fa.

Io ci sono capitata tanti anni fa, quasi per sbaglio. Inutile dire che all'epoca non mi interessava affatto la storia di imperatori e re e tanto meno di barbari e romani. Eppure i mosaici di Giustiniano ancora me li ricordo vividi.

Se, quindi, vi capita di passare da quelle parti, non vi perdete questa chiesetta. E, visto che ci siete, fatevi un giro anche verso Sant'Apollinare Nuovo, in cui c'è il mosaico del palazzo di Teodorico (in ogni arcata comparivano i maggiorenti goti che all'arrivo del nuovo conquistatore romano sono stati sostituiti con i drappi);

Il palazzo di Teodorico, Ravenna. Immagine da lastoriaviva.it

e non perdetevi il mausoleo di Teodorico, opera che forse rappresenta meglio l'intento di Teodorico il grande: quello di far convivere l'elemento romano e quello gotico in un unico luogo.


Buon tour!


martedì 7 ottobre 2014

La storia degli storici

E cosa succede quando, allontanandosi dalle testimonianze di prima mano, ci si ritrova secoli e secoli lontani a studiare quegli stessi avvenimenti, ma raccontati da intermediari?

Ci si ritrova sui banchi di scuola, a sfogliare manuali di storia incapaci di divulgare se non poche e superficiali notiziole. Se si è fortunati, di tanto in tanto, tra le date senza senso e i riassunti striminziti, ci si imbatte in notizie stuzzicanti che per un attimo ti fanno intravedere cosa potrebbe nascondersi dietro al piattume delle informazioni standardizzate. Per me, tanto tempo fa, è stato il riferimento all'assassinio di una regina gota per mano di un suo cugino associato al trono a farmi scivolare tra barbari illuminati e romani in decadenza. La storia, naturalmente, si è rivelata un po' più complicata di quello che in una lettura superficiale poteva apparire. Da lì sono arrivata alla cronaca di Procopio, ma anche a storici più moderni che mi hanno raccontato quella stessa storia da un punto di vista diverso: quello dello studioso cresciuto a 1500 anni di distanza, con una gran quantità di fonti a disposizione e sguardo storico del tutto diverso da quello dei contemporanei.

E tuttavia, devo ammettere che i grandi studiosi contemporanei che mi parlano del periodo menzionato non mi dicono, in realtà, molto. Non a caso, una delle mie letture preferite al riguardo è un po' vecchiotta. 

Thomas Hodgkin (1831-1913). Da Wikipedia
Thomas Hodgkin, storico inglese che ha scritto Italy and her Invaders (Oxford, 1880–1899) in otto volumi, si può definire, forse, storico della vecchia scuola. Il quarto volume della sua immensa opera è dedicato proprio alle guerre gotiche. Ed è questa che mi diverto a sfogliare a tempo perso.

La cosa che mi ha affascinato di lui è stata l'accuratezza della narrazione, ripresa direttamente alla fonte. Perché Hodgkin racconta fedelmente il racconto che Procopio fa della guerra, quasi fosse una traduzione, e lo amplia in mille modi diversi. Prima di tutto, usando altre fonti non solo contemporanee agli eventi narrati. Così vediamo la stessa storia guardata da diverse prospettive, anche se poi il punto di vista principale è quello di Procopio.
Tuttavia, Procopio non sempre è in grado di esaudire tutte le nostre curiosità, un po' perché dà per scontato che il lettore dell'epoca non avesse bisogno di tante spiegazioni o descrizioni, un po' perché forse lui non vedeva interesse in quello che a noi affascina di più. A questo rimedia lui, Hodgkin, infilandoci un sacco di  informazioni riguardanti... beh... un po' tutto. Dalla storia degli acquedotti romani, quelli che proprio in questo periodo vengono tagliati e mai più riportati al vecchio splendore, ai luoghi e ai costumi di tutta una penisola italica così come doveva apparire nel VI secolo: tanti dettagli che stuzzicano la fantasia, oltre che la curiosità.

Hodgkin non si limita a organizzare il racconto delle varie fonti. Lui congettura, o riporta congetture di altri studiosi, e così facendo, illumina la vita dei popoli del tempo. E si spinge anche oltre! Perché la sua grande cultura gli permette di spaziare e collegare eventi storici anche lontanissimi, come anche di rendere vivide conoscenze archeologiche che illuminano dinamiche di guerra ormai completamente ignote.
E se non bastasse, Hodgkin ci mette anche un po' di fantasia. Una fantasia sempre tenuta a freno dal rigore dello storico, ma che rende le nozioni estremamente piacevoli da scorrere e percorrere. Un esempio stupendo è la passeggiata che immagina fare a Procopio per le strade di Roma, all'indomani dell'ingresso dell'esercito romano nelle mura. Qui diveniamo diretti spettatori, passeggiamo con Procopio e ammiriamo con lui le magnificenze di una Roma ancora grandiosa, ma già pesantemente in declino. E per chi la conosce così come è adesso, a distanza di 1500 anni, questo tuffo in un passato a malapena intuibile costituisce da solo un divertimento tutto particolare. Sì, perché leggendo la storia raccontata da Hodgkin ci si diverte, quasi si stesse leggendo un romanzo storico.

La storia, allora, può essere raccontata quasi come una fiction, pur rimanendo estremamente fedele alle fonti. Bisogna saperlo fare, certo. E solo chi la ama veramente, secondo me, riesce nell'intento. Hodgkin, si vede fin dalle prime righe, aveva una passione infinita per la storia e una dote rara: quella di saperla trasmettere.

Siccome Hodgkin si trova gratis su Amazon, io vi consiglierei di darci un'occhiata. O meglio, se amate i romani e quel periodo di transizione che da loro porta al medioevo, ecco, questa è la lettura che mi sentirei di consigliare ad occhi chiusi. E, detto tra noi, non credo di essere l'unica ad averla apprezzata. Ma di questo parleremo nel prossimo capitolo, quello della fiction storica. 


venerdì 3 ottobre 2014

Storie di santi e di eroi

San Benedetto da Norcia, affresco di Subiaco, da Wikipedia
E poi, dopo le storie segrete, arrivano quelle dei santi. E il medioevo ne è pieno. Uno di essi, forse uno tra i più noti, è San Benedetto, coetaneo, tra l'altro, di quel Procopio di Cesarea di cui parlavamo l'altro giorno. Lo so, la Chiesa è piena di santi e a star dietro a tutti...

Allora, diciamo che san Benedetto è quello dei benedettini. È lui che poco prima della guerra gotica, nella prima metà del VI secolo, fonda l'abbazia di Montecassino, famosa per essere stata rasa al suolo dai bombardamenti della seconda guerra mondiale; san Benedetto crea anche la regola benedettina, che poi è considerata il fondamento del monachesimo occidentale, e compie una serie incredibile di miracoli, senza contare le visioni e le predizioni.

Noi conosciamo abbastanza dettagliatamente tutta questa serie di eventi grazie a san Gregorio Magno, papa vissuto nella seconda metà del VI secolo e morto nel 604. Prendendo a pretesto una sorta di conversazione con un certo diacono Paolo, san Gregorio Magno racconta episodi della vita dei santi italiani e i miracoli a loro attribuiti. Nascono, così, i Dialoghi, opera in quattro libri il cui secondo volume è dedicato esclusivamente alla vita esemplare del santo Benedetto morto solo pochi decenni prima.

Bombardamento di Montecassino, immagine da blog.oup.com
San Gregorio Magno non aveva conosciuto personalmente san Benedetto, ma aveva incontrato e ascoltato quattro dei suoi discepoli. E da queste testimonianze trae origine la Vita di San Benedetto.


Sicuramente, al tempo delle guerre gotiche, il santo doveva avere già una bella fama. Personaggi illustri quali Totila, re dei goti durante la seconda parte della guerra gotica, si prendono il disturbo di farsi una bella sfacchinata fino in cima a Montecassino per andare ad incontrarlo. E se qualcuno se lo sta chiedendo, no, Totila non ci arriva in ginocchio e non ci va con spirito devoto e contrito.
Prima di tutto, perché Totila non era cristiano. Anzi, proprio come tutti gli altri goti prima e dopo di lui, anche se dopo di lui ce ne sarebbero rimasti davvero pochini in giro, era un ariano. Apparteneva, cioè, ad una sorta di devianza del cristianesimo che non credeva in Cristo quale figlio di Dio e persona della Trinità, ma lo vedeva come la creatura più alta che Dio avesse creato, dotato di una certa dignità rispetto al resto del creato, ma pur sempre sua creatura.
Da Benedetto, Totila non ci va, quindi, per parlare di cose religiose. Del resto, dubito persino che gliene fregasse qualcosa. I Goti non erano proprio dei campioni di filosofia teologale e il loro re, un ragazzotto che probabilmente aveva passato tutta la sua vita a cavallo, spostandosi da un campo militare all'altro, non poteva certo fare eccezione. Lui ci va per svergognare il santo e prendersi beffa dei creduloni che lo dicono dotato di visione profetica. Così, arrivati in prossimità di Montecassino, Totila il re dei Goti si spoglia dei suoi abiti regali e li cede ad uno scudiero, comanda a tre dei nobili della sua guardia di seguire ed onorare lo scudiero come se fosse il re e di presentarsi al monaco in tal guisa, per vedere quanto la vista del santo fosse lunga.

Quando i quattro arrivano con il seguito imperiale davanti alle porte della cittadella, trovano Benedetto lì ad aspettarli. Non concede loro nemmeno il tempo di aprire bocca che subito apostrofa il falso re, dicendogli: "Togliti quegli abiti che non ti appartengono". Allora lo scudiero e il suo seguito cadono prostrati a terra e se ne tornano da Totila di filato. Per quanto in gamba fosse quale re, alla fine Totila era pur sempre un barbaro un po' capoccione. Non fa sorpresa sapere che, rivestitosi dei suoi abiti, va lui stesso a chiedere di questo Benedetto. E Benedetto lo accoglie con aria placida. Gli dice che fino a quel momento aveva fatto molto male, che doveva ravvedersi, che sarebbe entrato in Roma, avrebbe passato il mare, che avrebbe regnato nove anni e al decimo sarebbe morto. Di sicuro Totila venne scosso da simili parole. Un po' maluccio si era comportato, in effetti. Ma relativamente nulla, se si pensa in che tempi si era.
In ogni caso, da quel giorno si dimostrò con gli italiani e con i nemici catturati meno barbaro degli stessi bizantini; dopo poco entrò a Roma, tornò verso la Sicilia, regnò nove anni e il decimo morì in battaglia.

Spinello Aretino, Totila incontra san Benedetto
San Miniato al Monte, Firenze. Da Wikipedia
Ci sono poi altri miracoli che colpiscono per originalità e che quindi mi sembrano degni di attenzione, se non vogliamo proprio dire fede. E poi ce ne sono altri che sembrano ricalcare miracoli di altri santi, come lo stesso compilatore ricorda. E questi, forse, potrebbero essere stati ricordati, magari riadattandoli un pochino, allo scopo di collocare san Benedetto nella schiera dei grandi personaggi biblici e donargli pari autorevolezza.

Nonostante il dubbio che una dose di manipolazione di alcuni eventi ci sia stata, rimane la sensazione di trovarsi davanti ad un personaggio reale, storico: un santo, ma anche un uomo, con mille pregi, ma anche qualche spigolosità di carattere, capace di comunicare con Dio ed intercedere per gli uomini.

E la domanda, anche questa volta, salta fuori, vero? Qual è la verità storica? Quanto la vita di San Benedetto è stata aggiustata dai suoi discepoli o dallo stesso Gregorio Magno per renderla più esemplare e quanto possiamo dire che sia la testimonianza genuina della vita di un santo?
Ad essere onesta, poco mi importa. Scopo del compilatore non era, in fondo, esaltare la persona Benedetto, ma esaltarne il messaggio. E questo è un compito a cui assolve egregiamente.

E allora, a volte, può essere giustificata la manipolazione della verità storica?


lunedì 29 settembre 2014

La storia segreta


La scorsa settimana vi avevo lasciato tra le sfumature gialle dei miei romanzi polizieschi, con uno Sherlock Holmes in sospeso. Probabilmente pensavate che toccasse a lui, ora.
Beh, diciamo che lui era arrivato ad interrompere un altro filo che si inoltrava in altre direzioni: quelle delle letture archeologiche. No, non mi interesso di archeologia, ma vi tedierò, almeno per qualche post, con letture che non sono già più classiche, ma nemmeno moderne (in senso lato).

Avevo da un po' nel mio lettore un paio di volumetti che stavano lì ad aspettare il loro turno.
Il primo era Seneca, con le sue Lettere a Lucilio (scritte tra il 62 e il 65 dC). Il secondo era La storia segreta di Procopio di Cesarea. Ora, sebbene Seneca lo dovete conoscere per forza almeno di nome (quindi sapete bene che si può definire senza remore "classico"), non pretendo lo stesso nei confronti di Procopio di Cesarea. E indovinate quale dei due mi sono andata a leggere?

Esatto, Procopio.
Aspettate, non andate a google-are subito, vi racconto io chi è questo Procopio. Ma prima dobbiamo ricordarci un po' di storia alto-medievale o tardo-imperiale, o anche bizantina, se preferite, e, più precisamente, la storia delle invasioni barbariche. No, non dal principio, perché, onestamente, degli Unni e di Attila ne ha già parlato tempo fa Piero Angela in un lungo documentario e quello basta. Diciamo a metà strada, un po' dopo la calata dei Goti in Italia e un po' prima della calata dei Longobardi: fine 400 - metà 500.

Ma senza perdere altro tempo, iniziamo a raccontarla, questa storia.

C'era una volta, verso gli inizi inoltrati del VI secolo, l'impero romano d'oriente e sul suo trono sedeva un imperatore di umili origini che aveva sposato una donna anche lei non molto più nobile, visto che era stata, in una vita precedente, una donna del circo. E si sa, a quei tempi lavorare nel circo voleva dire essere una prostitura. I loro nomi erano Giustiniano e Teodora. La storia li ricorda così:


A quel tempo, l'impero d'occidente non se la passava molto bene. O meglio, se la passava discretamente rispetto a quello che sarebbe capitato in un futuro prossimo; ma anche rispetto a prima, considerando che già da un po' la corruzione e le lotte di potere avevano destabilizzato un po' tutta l'Europa occidentale (sì, lo so, all'epoca non esisteva il concetto di Europa. Eppure, per quanto possa sembrare strano, esisteva quello di "italiani", visto che i romani sotto i goti venivano comunemente chiamati da Procopio "italiani" per distinguerli dai romani liberi dell'impero d'oriente. E si potrebbe andare oltre, dicendo che i romani d'oriente venivano chiamati "greci" in senso dispregiativo dai nemici). A regnare in occidente non era più un imperatore romano, ma una serie di re barbari che per un motivo o per un altro erano capitati in Italia, in Spagna, in Gallia, in Africa... insomma, erano un po' dilagati ovunque. Ora, se non siete molto ferrati sul periodo storico, avrete almeno reminiscenze scolastiche che vi parlano di invasioni barbariche nefaste. Ecco, queste invasioni non furono proprio così catastrofiche e i re delle varie etnie barbare erano personaggi spesso cresciuti a Costantinopoli e che quindi conoscevano bene usi e costumi dell'impero, che magari sapevano comportarsi secondo l'etichetta e, soprattutto, che riconoscevano l'autorità dell'imperatore.

Tuttavia, appena salito al trono, Giustiniano decise che  l'impero romano doveva tornare sotto la guida dei romani e iniziò una serie infinita di guerre. Dapprima c'erano i Persiani, gran bei rompiscatole, sempre pronti ad invaderti i territori per motivi futili. Poi c'erano i Vandali in Africa che possedevano un sacco di campi di grano e altre risorse dal grande potenziale, se ben sfruttate dalle mani dell'imperatore; e poi i Goti in Italia, anche loro non proprio morti di fame se si pensa alle terre della Sicilia e del sud, ricche di grano e di vasti terreni agricoli. Piano piano, Giustiniano dichiara guerra a tutti e piano piano si dimostra anche vittorioso. Il generale che porta alla vittoria le tre campagne di guerra e che fa guadagnare all'imperatore un sacco di terre, tesori e schiavi è Belisario (nel mosaico con Giustiniano, è il personaggio alla destra dell'imperatore, quello alto, belloccio, con la barba). Con Belisario, parte in guerra anche un suo segretario che ha il compito di consigliere, ma anche di cronista. Il suo nome è Procopio. Sì, quello a cui accennavo sopra.

Procopio, oltre a dare consigli sensati in caso di impasse, era incaricato anche di scrivere un resoconto delle guerre condotte da Belisario (contro i persiani, contro i vandali e contro i goti); in più, successivamente, egli si premura anche di compilare un catalogo di tutte le costruzioni (palazzi e chiese) fatte erigere sotto l'impero di Giustiniano e un libricino chiamato La storia segreta.

Come storico, Procopio si dimostra un lucido ed equilibrato cronista. A parte la scrittura piacevole, il suo sguardo sugli avvenimenti delle guerre non cade mai nell'invettiva contro i barbari o nell'esaltazione partigiana dei suoi. Riconosce meriti ovunque li veda, che sia in campo amico o che sia in campo nemico e, allo stesso modo, giudica gli errori del nemico così come quelle del nemico.
Probabilmente, questo atteggiamento super partes non fu molto gradito all'imperatore. Caspita, stiamo esaltando la potenza vittoriosa dell'impero contro una banda di ridicoli barbari baffoni. Perché, allora, sottolineare le magagne interne dell'esercito, con le varie "incomprensioni" (leggi rivalità, quando non proprio insubordinazione) dei vari generali?
A questo punto, Procopio cerca di rimediare. No, non modifica le sue storie delle guerre, ma scrive Sugli edifici, l'opera che passa in rassegna le costruzioni volute da Giustiniano in tutto l'impero. Questo catalogo diventa, allora, il mezzo per esaltare la bontà e l'accortezza dell'imperatore.

L'ultimo lavoro di Procopio, Anektoda o La storia segreta, si discosta così tanto dai toni imparziali delle guerre o da quelli encomiastici sugli edifici che spesso ci si è chiesti se potesse davvero essere opera dello stesso Procopio. Alla fine, gli studiosi si sono risposti che sì, deve esserne per forza lui l'autore, perché quanti storici del tempo si potevano trovare nella stessa posizione che permettesse loro di osservare da vicino vita di corte, intrighi di palazzo, situazione dell'esercito nelle varie campagne e situazione delle terre conquistate, per non parlare dei retroscena della carriera del generale Belisario? Mhh... in effetti solo uno: Procopio stesso.

Frontespizio della Storia segreta
in un'edizione cinquecentesca.
Immagine da Wikipedia.
La storia segreta parla di tutte quelle cose lì con un tono schietto, a volte persino esacerbato, svergognando l'imperatore, l'imperatrice e il grande generale. La cosa che stupisce maggiormente, e non solo me, sono i toni talmente inviperiti che spesso ci si dice che quello che parla è un uomo rancoroso, che cerca vendetta attraverso la diffamazione.
Belisario, il generale che ha sconfitto ben tre regni, diventa un pavido che subisce le malie di una moglie fedigrafa; Giustiniano è addirittura un demone (uno di quelli veri, con tanto di esempi che lo confermerebbero) intento solo all'arricchimento personale (le guerre sono solo un modo per rimpinguare le sue tasche, non quelle dell'impero) e allo spargimento di sangue: qualsiasi mezzo per ottenere questi due scopi è lecito. Teodora viene descritta come una prostituta libidinosa sin dall'infanzia, che sposa l'imperatore essendo ben consapevole della sua natura demoniaca e che si dimostra ancora più crudele del consorte, usando gli stessi metodi di lui caricati di una ferocia impacabile.

 I fatti narrati a sostegno di questo dipinto poco felice dei regnanti sono molti. Alcuni non si ha difficoltà ad accettarli come veri. Altri ti lasciano riflettere. Ti portano a chiederti se sia mai possibile che l'intento dell'imperatore fosse semplicemente quello di uccidere più sudditi possibili per il solo gusto del sangue o accumulare più denaro nelle sue tasche per poi spenderlo in edifici sparsi per l'impero.

Che Procopio avesse subìto un grave torto dall'imperatore e che per vendetta avesse architettato di tramandare ai posteri un suo ritratto non proprio esaltante? Una specie di damnatio memoriae.
Sinceramente, non posso sostenere che molti dei fatti raccontati da Procopio siano inventati: altre fonti parlano chiaro e concordano con le accuse apportate al governo dell'imperatore Giustiniano. Tuttavia, lo sfogo dello storico sembra privo di quella lucidità che pervade le guerre e uno si chiede, suo malgrado: quale torto può aver mai subito, il nostro Procopio, dall'imperatore?

E a questo punto, ancora una domanda mi sorge spontanea: quanto una storia vera può essere fiction a sua volta? Del resto, non è forse vero che la storia viene scritta dai vincitori? E Procopio, in un certo senso, è il vincitore, colui che ha il potere della penna, il potere, cioè, di ritrasformare la storia secondo il suo punto di vista.
Il depositario della memoria storica: è lui il vero vincitore, alla fine. Perché è lui che fa la storia per coloro che verranno.



venerdì 26 settembre 2014

Stacchetto giallino



Perché in Italia il genere poliziesco ha preso il nome "giallo"?

Sì, lettore accorto, lo so che l'ho già detto qui, ma per i più distratti lo ripeto.

Nel lontano 1929, la Mondadori pensò di inaugurare una collana economica che avesse come protagonisti dei polizieschi tradotti per lo più dall'inglese. La copertina delle prime edizioni era gialla con titolo nero, frase accattivante (del tipo: "Questo libro non vi lascerà dormire" o "Ogni pagina un'emozione") e un'immagine racchiusa in un esagono rosso, come questo:


Presto, però, si optò per la soluzione che tutti ormai riconosciamo, quella con il cerchio rosso:


Nel 1941 la collana smise di uscire periodicamente a causa della censura fascista, ma non possiamo dire che la loro tradizione sia scomparsa, vero?

Se volete saperne di più sulla collana Mondadori, sugli autori stanieri e nostrani che vi sono stati pubblicati, sugli influssi, insomma, su tutto ciò che riguarda il giallo in Italia, c'è questo documento-opuscolo o simile di Emanuela D'Alessio, ricco di particolari interessanti e piacevole da scorrere: L'esordio dei Gialli Mondadori.
Qui ho trovato parecchie curiosità svelate che, tuttavia, non vi rivelo. Se siete curiosi almeno quanto me, vi farà piacere scoprire perché Mussolini censurò il giallo o come Simenon entrò a far parte della collana.

Adesso che spero di avervi incuriositi abbastanza, vi lascio tra le righe di Emanuela D'Alessio e corro a gustarmi le prossime letture.


lunedì 22 settembre 2014

Che razza di giallo sei?



No, non lo sto chiedendo direttamente a voi, niente panico.
Questo è l'ipotetico titolo di un gioco quanto meno inutile che vuole fare un po' di ordine nelle mie letture poliziesche.

Le regole del gioco sono semplici. Prima di tutto si elencano tutti i romanzi gialli letti fino ad ora. Almeno da quando abbiamo aperto il blog. E se non avete un blog, beh... facciamo finta di niente e prendiamo i gialli che vi ricordate meglio o che vi sono rimasti nel cuore, se volete.

Per quel che mi riguarda, ho steso una lista, tanto per rinfrescarci la memoria:

Eccola qui:

Chissà perché, pensavo fosse più lunga. Ma anche così possono bastare.

Di questi:

- almeno due sono cozy crime fiction (I misteri della via Morgue, Il vecchio nell'angolo).
- tre li definirei hard-boiled crime fiction (Il canto delle sirene, The Wire in the Blood, Red Dragon).
- uno (La verità sul caso Harry Quebert) lo definirei crime fiction con forte presenza di elementi del giallo giudiziario tradizionale (c'è un colpevole che in verità è innocente e l'indagatore deve svelare il vero assassino per scagionare il sospettato).
- l'ultimo, Il libro di legno, ho talmente tante riserve ad infilarlo in uno qualsiasi dei sottogeneri citati che mi sono arresa e l'ho lasciato incatalogato.

Tra i cozy, I misteri della via Morgue sono misteri della stanza chiusa a chiave (le uscite sono chiuse dall'interno: il crimine sembra inspiegabile). Gli altri sono tipici whodunit (classico svolgimento: crimine-indagine-risoluzione).

Tra gli hard-boiled, The Wire in the Blood è un howcatchem (sappiamo già dall'inizio chi è il colpevole), mentre Il canto delle sirene e anche Red Dragon oscillano tra whodunit e caper story (punto di vista del colpevole), mettendoci anche un po' di spirito noir.

Ancora una volta, il Il libro di legno rimane non ben classificato visto che c'è, in effetti, un motivo d'indagine all'inizio (una donna altolocata di una Palermo in cui si sente forte lo stridio tra le apparenze e la sostanza chiede al protagonista di ritrovare dei libri del suo defunto padre), ma il delitto vero viene commesso solo a metà del libro, mentre altri crimini compiuti in epoche precedenti vengono a galla in corso d'opera. Sembrerebbe una struttura in parte simile a quella di Chandler The big sleep (vi ricordate? Quello di cui non ho letto nemmeno la metà, antesignano del genere hard-boiled: anche lì il detective viene assunto per far luce su un crimine minore e solo dopo arriva l'assassinio) se non fosse che la sensibilità, le atmosfere familiari e le elugubrazioni della scrittura vi si discostano totalmente e lo rendono più... cozy (ma anche qui, le periferie, i personaggi, la mafia e la corruzione richiamano lo scenario caro all'hard-boiled). Insomma, un bel miscuglio che riesce solo in parte, come abbiamo visto a suo tempo. E non so se dare la colpa al tentativo in sé o al modo in cui è stato sviluppato.

Procedendo oltre, di tutti questi nostri gialli, il protagonista dell'indagine non è quasi mai un poliziotto vero.

In I misteri della via Morgue, come anche ne Il mistero di Marie Rogêt di Poe, il detective è un curioso gentiluomo caduto in rovina, ma non per questo in disperazione, che passa le giornate dormendo e le notti speculando su casi della vita e casi criminosi, adottando il metodo deduttivo indifferentemente per gli uni e per gli altri. Ne Il vecchio nell'angolo abbiamo un vecchietto un po' burbero che ama bere il suo latte in una pasticceria alla moda di Londra. Ne La verità sul caso Harry Quebert l'indagine è portata avanti da uno scrittore. Il libro di legno vede come protagonista un radiotecnico che a tempo perso fa il detective privato.
Ne Il canto delle sirene, come anche ne The Wire in the Blood, il detective è un profiler affiancato da un poliziotto e, infine, in Red Dragon è un ex poliziotto che per campare costruisce e ripara motori di barche, almeno fino a quando non gli viene chiesto di rientrare nel corpo e aiutare con le indagini.

Ecco, questo è quanto. Riordinate così, le mie letture gialle sembrano acquisire un senso maggiore, non vi pare?

O, almeno, una cosa sembrano gridarla a squarciagola: a risolvere il crimine è raramente il poliziotto vero e proprio. E allora perché li chiamano polizieschi? La maggior parte dei romanzi che mi sono letta sembrano addirittura asserire che i poliziotti raramente riescono a capirci qualcosa. Ma sorvoliamo su questo dettaglio che, già lo so, mi porterebbe a intraprendere letture infinite di antichi polizieschi dall'incerto valore letterario.


E per la cronaca: sì, ho letto Sherlock Holmes. Ma non l'ho inserito nella lista e non ne parlerò adesso. Aspettatevelo, prima o poi, ma non subito. : )

  
 

giovedì 18 settembre 2014

Le definizioni non finiscono mai



Eggià, vi avevo promesso un seguito al post delle definizioni giallesche (vero, Daniele? :D), ed eccolo qua. Ma forse non dovrei chiamarle più definizioni, ma caratteristiche strutturali.

L'altra volta ho cercato di dare una veloce scorsa a quelli che sono i sottogeneri del giallo. Per lo più, mi sono basata sui contenuti. Oggi, invece, mi stuzzica parlare della struttura di questi romanzi.

Perché, se andiamo a prendere la costruzione e l'impalcatura delle varie opere, ci accorgiamo che non tutte sono pensate allo stesso modo e l'effetto che ne deriva non è sempre uguale.

Whodunit, ripreso da furiousdiaper
Come ormai tutti sanno, di solito il romanzo giallo classico inizia con la scoperta di un omicidio (o fatto altrettanto criminale), per poi proseguire con le indagini. Mille prove saltano fuori durante la lettura e alla fine si arriva alla soluzione con relativo disvelamento di colpevole e movente. Questo è il tipico sviluppo che Wikipedia anglofona chiama whodunit (chi-è-stato o chi-l'ha-fatto, scritto come lo pronuncerebbe uno scozzese, ma non perché gli scozzesi ci abbiano a che fare, ma perché rimanda all'associazione giallo-genere popolare. E anche questo, da solo, sarebbe un argomento a sé, per un altro post).
La struttura è logica e lineare: il lettore trova tanti piccoli tasselli e si diverte ad incastrarli, giocando così al detective insieme al protagonista.
Immagine ripresa da casualoptimist

Di questo prototipo, ci sono varianti più o meno cervellotiche. Esempio supremo: il delitto è lì, sotto i nostri occhi, ma ci risulta impossibile capire come sia stato perpretato. Vi ricordate i Dieci piccoli indiani di Agatha Christie? Ecco, tipo quello. In inglese viene riferito come Locked room mistery (il mistero della stanza chiusa a chiave). Se vogliamo, il primo giallo della storia ha proprio questa struttura. Vi ricordate I delitti della via Morgue, di Poe? Il delito è compiuto in una stanza ermeticamente chiusa a chiave dall'interno ed è umanamente impossibile essere usciti dalla scena del crimine.

Un altro schema narrativo che si sviluppa in seguito è quello che prevede un'inversione nella sequenza dell'indagine: fin da subito sappiamo non solo come è stato commesso il crimine, ma anche chi lo ha commesso e lo scopo dell'indagine sarà quello di inchiodare il criminale apportando sempre più prove sostanziali.
In inglese, questa struttura viene detta howcatchem (come-li-acchiappi) o, più aulicamente, Inverted detective story (storia poliziesca invertita). Diciamo che in questa categoria ci possiamo includere tutti i romanzi riguardanti inchieste giudiziarie o medico-legali e simili.

Schema preso da davidboagey
C'è un'altra categoria di giallo che forse non potrei proprio inserire in una classificazione riguardante la struttura, ma in un'analisi del punto di vista narrativo. In inglese sono dette caper stories (e qui mi trovate in difficoltà nel tentativo di trovare una traduzione appropriata: Storie sottosopra? Capovolte, ribaltate? Di certo non "storie del cappero"! O forse...). Come si intuisce, c'è qualcosa che non funziona in modi tradizionale e che, anzi, viene ribaltata. E questa cosa è la voce narrante che, invece di essere associata al punto di vista del detective, viene sviluppata seguendo il punto di vista del criminale. Lo so, sto parlando del noir, sottocategoria già introdotta nel precedente post, ma siccome mi riferisco non tanto ai contenuti, quanto alla struttura narrativa, mi sembrava bene aggiungerlo anche qui.

Ecco qui, queste mi sembrano le caratteristiche strutturali più menzionate e adottate dai vari gialli.
E adesso che vi ho tediato con classificazioni e definizioni, cosa facciamo?

Beh, andiamo a rivedere tutti i gialli che mi sono letta e cerchiamo di inquadrarli in uno o in più di questi sottogeneri. :)
Un esercizio senza scopo, ma che stranamente mi appaga in modo non indifferente. :D

Ma questo al prossimo post.