giovedì 31 ottobre 2013

Ancora su Glenarvon



Curiosando qua e là sul web, ho trovato qualche strambo lettore curioso che, come me, ha avuto la pazienza di andarsi a cercare e leggere Glenarvon, probabilmente sulla scia di una infatuazione per Lord Byron.

   
Hieronymus Bosh, La nave dei pazzi.
Uno di questi, commentando il romanzo, mi ha fatto riflettere. L'impressione che ne trae mi ha colpita, lo devo ammettere, perché probabilmente è proprio quella che i contemporanei di Lady Caroline Lamb ebbero all'epoca della prima uscita del romanzo: un'invasata che tenta di dileggiare Byron.

Eppure, questi due assiomi incessantemente appiccicati alla figura di Lady Caroline Lamb potrebbero essere ridimensionati, quando non persino stravolti, se si leggesse l'opera non solo in funzione del mito della donna ossessionata dall'amante traditore.

Pazza lo era. O almeno tale fu diagnosticata, tanto da minacciarla di rinchiuderla in istituto se non avesse accettato passivamente la "reclusione" in una tenuta di famiglia e la proibizione di scrivere altro.
Ma poi ti imbatti in un articolo di Leigh Wetherall Dickson, The Construction of a Reputation for Madness: The Case Study of Lady Caroline Lamb, e allora ti viene il dubbio che la definizione di pazzia, come anche la sintomatologia per cui viene diagnosticata, possa variare di epoca in epoca.

Così si scopre che i sintomi che denotano la pazzia morale nell'800 somigliano parecchio a quelli che nella nostra epoca verrebbero accostati ad un carattere poco incline al piegarsi alle convenzioni e forse anche un pochino esasperato (ed esasperante)  nei suoi tentativi di imporsi.

Questa strana malattia del XIX secolo colpiva per lo più donne dell'alta società, lasciate libere di annoiarsi a loro gradimento e che nonostante tale libertà, sentivano il bisogno di sottrarsi agli schemi di comportamento imposti. Ma da questo stato mentale distorto non erano avulsi nemmeno gli uomini. Basti pensare che all'epoca del divorzio, persino a Lord Byron era arrivato a casa un medico mandato dalla sua dolce metà al fine di accertare se non fosse davvero pazzo, visti i chiari sintomi che dimostrava nel suo contegno.
Certo, anche lui non è che si adattasse pronamente alle convenzioni morali dell'epoca.

Ok, innegabile dire che Lady Caroline non era proprio un tipino comune. Ma forse è proprio per questo che le fu affibbiata l'etichetta di pazza. Non era simile alle altre ladies che, pur tradendo e mantenendo relazioni con altri uomini, rimanevano discrete, silenziose nel loro ruolo di mogli affettuose. Non subiva passivamente le imposizioni esterne, nemmeno quelle del suo amante quando questi, stanco dei suoi eccessi, la lascia. Anzi, lo rincorre, lo tormenta, denuncia la loro relazione e crea scandalo in una società che la condanna non tanto per la relazione in se stessa, quanto per la mancanza di discrezione.

Vista in questa ottica, dietro la pazza si nasconde in verità una donna molto intelligente, forse un pochino instabile nei suoi cambi d'umore ed eccessiva nelle sue manifestazioni emotive, ma soprattutto ribelle, e nulla più.

Da una donna così ci si può aspettare di tutto, persino che scriva un romanzo-resoconto delle sue tresche amorose nel tentativo di discreditare il suo amante incostante.
Ma siamo sicuri che fosse solo questo lo scopo di Glenarvon?

Non so, se avesse voluto solo esporre Lord Byron alla gogna pubblica, probabilmente non avrebbe aspettato la sua partenza. In fondo, la conclusione della loro liaison risale al 1812, mentre il romanzo esce nel 1816, un mese dopo la partenza del Lord.

Forse ci potrebbe essere stata un'altra intenzione, allora. Un'altra chiave di lettura che fa meno leva sul pregiudizio comune della donna ossessionata dall'amante.

In un periodo in cui non sperava certamente più in una riconciliazione con il suo oggetto del desiderio, dopo tanti scandali alimentati da lei stessa, dopo tante parole e cattiverie dette e scritte, Lady Caroline si ritrova a scrivere il suo primo romanzo, di getto. Ne esce fuori il racconto di una giovane donna e del suo milieu che tanto la soffoca con le sue regole di comportamento ipocrite e la sua frivolezza. Con una accanita lucidità si auto-analizza, riconosce i suoi difetti caratteriali, ripercorre le tappe della sua vita: il matrimonio felice, l'entrata in società e il cambiamento che essa opera su di lei, l'arrivo dell'amante dispotico che vuole tutto per sé e che la incoraggia persino a fuggire con lui, l'abbandono da parte del crudele, la richiesta del perdono finale al marito e la sua stessa morte, accanto alla morte di altre e altri che come lei sono stati ingannati o offesi dal comportamento di Lord Ruthven. Un bello spoiler veloce veloce, vero?

Naturalmente, nella realtà Lady Caroline non muore, almeno non fisicamente. Ma forse qualcosa di lei, trasfigurata nella sua immagine romanzata, lo fa.

Lo so, può sembrare un azzardo identificare la morte dell'eroina con una specie di catarsi della scrittrice. Alla fine l'eliminazione fisica della peccatrice era d'obbligo negli schemi del romanzo ottocentesco. L'eroina adultera, non trovando una collocazione conveniente nella società, nonostante tutto il pentimento che la coglie, non può far altro che togliersi dalle scene con una bella morte.
Eppure mi suona strano che proprio nel finale Lady Caroline si adegui alle convenzioni romanzesche, permettendo alla sua eroina di fare ciò che lei stessa non si sarebbe mai permessa di fare: morire in silenzio. Non sarebbe da lei.

E se, nelle intenzioni della scrittrice, fosse solo una delle tante anime dell'eroina-scrittrice a morire? Quella che era stata posseduta dall'ossessione dell'amante?

Voi mi direte: ma non potrebbe essere solo uno stratagemma narrativo? Se lei e gli altri non muoiono, come fanno i fantasmi a perseguitare il cattivo?

E pure questo è vero. Ma mi sorge il dubbio che i fantasmi persecutori non siano solamente il colpo di scena del finale, ma anche una specie di anatema scagliato contro il Lord Ruthven in carne ed ossa: sii perseguitato dai "fantasmi" che le tue stesse azioni meschine hanno creato. In parte, conoscendo Lord Byron, questo poteva essere un augurio efficace, visto che nonostante le sue turpitudini, era un uomo capace di provare sensi di colpa, anche se incapace di imparare dai suoi errori.

Che Lady Caroline sia riuscita o meno a liberarsi della sua ossessione per Lord Byron attraverso il suo romanzo, non potrei giurarlo. Credo tuttavia che questa chiave di lettura possa valere bene, se non meglio, di quella che molti si ostinarono e si ostinano tutt'oggi a vedervi.
Poster del film

Se vi ha incuriosito la storia di Lady Caroline Lamb, vi riporto questo link: http://www.sjsu.edu/faculty/douglass/caro/index.html
Qui ci sono molte informazione, anche se in inglese.

E come ultima chicca, vi dico solo che nel 1972, o '73 (non si capisce bene), è uscito un film con Lady Caroline Lamb come soggetto. In italiano suona come Peccato d'amore, in inglese semplicemente Lady Caroline Lamb. Non sono riuscita a vederlo e quindi non so dire quanto i personaggi e la storia siano fedeli alla verità, ma mi piaceva molto la locandina. :D





martedì 29 ottobre 2013

Lord Ruthven e l'amante




Prima di tutto, inizio con le presentazioni:


Lady Caroline Lamb, ritratto di Sir Thomas Lawrence

Lady Caroline Lamb, nobildonna dall'intelligenza vivace e dal caratterino a tratti impulsivo o isterico, che dir si voglia; diagnosticata pazza, oltre che facente uso di oppiacei. Amante di Lord Byron nel 1812 per pochi mesi, ossessionata da lui e sua persecutrice.
Scrittrice a tempo perso.

Questa è l'idea che, più o meno, ci si fa leggendo le varie biografie che di lei sono state proposte, eccezion fatta forse per quella di Paul Douglas, Lady Caroline Lamb: a biography, 2004. Beh, non di certo un ritratto lusinghiero, tanto più che la sua produzione viene presto liquidata come frutto della sua ossessione amorosa per Byron.

Ed eccolo ancora, questo Lord Byron, ripresentarsi come personaggio portante in questo dedalo gotico.

Probabilmente ricorderete che nel 1816 il nostro poeta parte per il suo esilio auto-imposto nel tentativo di evitare il disprezzo pubblico. Negli anni precedenti non solo si attirò addosso la fortuna grazie ai suoi versi, ma anche e soprattutto scandali su scandali, fomentati tra l'altro dalla relazione con Lady Caroline che non faceva segreto della loro storia, nonostante fosse felicemente sposata. Ebbene, proprio nello stesso anno 1816, un mese appena dopo la sua partenza, esce il romanzo Glenarvon, firmato Lady Caroline Lamb.

In Glenarvon ci troviamo un po' di tutto: il crudele amante possessivo e ingannatore, losco figuro con altarini segreti, il delitto primitivo che dà un tono orrorifico al tutto, il seduttore impenitente, le povere vittime che muoiono per amore, il motivo risorgimentale in una Irlanda dalle fosche tinte, i manieri lugubri e le apparizioni di pazzi, spiriti e fantasmi, ingredienti insaporiti di tanto in tanto da una manciata di battute moraleggianti e di condanne non troppo velate all'incapacità della classe dominante di fare il bene del paese, immersa com'è nel futile e nel dolce far nulla.

Insomma, senza cantarla troppo, uno dei tanti polpettoni gotici, direte voi.
Forse, se non fosse che Lady Caroline Lamb, quando racconta la storia portante del romanzo, ovvero la vicenda di seduzione dell'eroina, non fa altro che raccontare di sé e della tresca amorosa con Lord Byron. E arriva ad una tale onestà nell'esposizione da includere nel romanzo persino lettere e stralci della loro corrispondenza privata.

Lady Caroline Lamb
Spudoratamente pubblicizzata fin dall'inizio, la storia d'amore con Byron a questo punto diviene non solo ancor più di ampio dominio, ma viene persino trasmessa ai posteri. Inutile dire che la figura del Lord ne esce piuttosto malconcia: naturalmente è lui il seduttore spietato, l'insurrezionalista traditore della causa appena l'occasione lo domanda, l'involatore di vergini morigerate e distruttore della serenità di intere "rispettabili" famiglie. Che poi anche dietro a queste famiglie, fin troppo simili a quelle del suo ambiente, ci siano altarini degni di romanzi scabrosi, passa in secondo piano, anche se i suoi cari non la pensarono proprio così e la fecero dichiarare pazza.

Ok, diciamo che il personaggio cattivo che Lady Lamb crea non è un genio del male assoluto. Sembra più un essere tormentato, che ama intensamente e altrettanto velocemente dimentica la sua passione appena l'occasione gli offre una nuova vittima. Ma lo fa senza malizia, senza preterintenzionalità, e sempre dolorosamente consapevole dei suoi delitti. È semplicemente la sua natura.  Nonostante questo, ciò non fa di lui un essere meno crudele agli occhi della società inglese che subito riconosce l'ombra di Byron.

A questo punto ci resta solo da svelare il nome del personaggio romanzato ispirato dalla figura di Lord Byron. Non credo che qualcuno si stupirà nel sentirlo chiamare Lord Ruthven, lo stesso nome e carattere ripreso da Polidori per il suo vampiro.

Che Polidori fosse a conoscenza della storia tra Lady Caroline Lamb e Lord Byron, ma anche del romanzo Glenarvon, era sicuramente probabile. Anche perché a ben leggere il suo racconto c'è un piccolo riferimento allo stuolo di donne sedotte che ricorda tanto il caso di Lady Caroline:
Infine, tutte quelle donne che lui aveva cercato, apparentemente ad onore della loro virtù, da quando lui è partito hanno gettato la maschera e non hanno avuto scrupoli nell'esporre l'intera deformità dei loro vizi allo sguardo pubblico.
A questo punto, in effetti, mancava solo che mettesse tra parentesi il nome di Caroline Lamb: sedotta, abbandonata e vendicata attraverso il suo stesso romanzo che senza pudore espone lei e il suo seduttore allo sguardo pubblico.

Ma, tornando al punto, la mia domanda è questa: possiamo, quindi, supporre che Polidori, quando ritrae il suo vampiro, prenda ad esempio lo stesso Lord Ruthven di cui Lady Caroline Lamb racconta nel suo Glenarvon? Possiamo supporre che questo Lord Ruthven sia dipinto a sua volta, in entrambi i casi, sulla figura dello spietato Lord Byron, seduttore e ingannatore?
A me sembra più che probabile.

Infine, possiamo allora dire che il nostro Conte di Montecristo, associato dal suo autore stesso a Lord Ruthven, debba essere in qualche pur lontano modo ricondotto a Lord Byron?


Lord Byron, ritratto ad olio in costume Albanese, Thomas Phillips (1814)

No, probabilmente no. Ma è stato divertente esplorare tutte le possibilità nate da una banale associazione di nomi e inesattezze.







domenica 27 ottobre 2013

Lord Ruthven e il dottore



Oggi iniziamo con questo piccolo siparietto tratto da Il Conte di Montecristo:
"Ebbene!" domandò allora alla contessa, dopo che l'ebbe guardato una seconda volta, "che pensate di quell'uomo?"
"A me sembra che sia lord Ruthwen in carne ed ossa."
Infatti questo nuovo ricordo di Byron colpì Franz; se qualcuno poteva fargli credere l'esistenza dei vampiri, era quest'uomo.
"Bisogna ch'io sappia chi è..." disse Franz alzandosi.
"Oh, no" gridò la contessa, "no, non mi lasciate! Ho contato su voi per accompagnarmi a casa, ed ora vi trattengo."
"Come, veramente" le disse Franz, accostandosele all'orecchio, "avete paura?"
"Ascoltate" disse lei, "Byron mi ha giurato che credeva ai vampiri, mi ha assicurato di

averne veduti, e me ne ha descritti i loro visi; ebbene, assomigliano perfettamente a quell'uomo là, con i capelli neri, grandi occhi brillanti di una strana fiamma, quel pallore mortale."

Ecco qua, con una facile associazione, Dumas mi fa cadere tutto il castello di deduzioni e siparietti che avevo immaginato di dover comporre sulla scia di questo misterioso Conte di Montecristo, alias Lord Ruthven, alias Lord Byron.

O forse no.

Ci risiamo, direte voi. Ancora una volta ci ritroviamo davanti ad una descrizione del Conte. Lo so, ormai lo abbiamo ben vivido davanti agli occhi della mente: palliduccio, magrolino, con una bella pelle giovane (incartapecorita?) che non dimostra i suoi anni e uno sguardo infuocato. Beh, sappiamo bene il perché di questo aspetto: è stato in galera 14 anni, mica un attimo, e la mancanza di sole, il pessimo vitto e il desiderio ardente di vendicarsi hanno in parte modellato il suo fisico.

"Aspettate! - ci dice Dumas a questo punto, - nonostante tutto, non lo so mica se lo avete ben inquadrato, questo mio Conte. Magari ve lo figurate visivamente tal qual'è, ma avete compreso quale sensazione di raccapriccio e fascinazione suscita in mezzo ai suoi pari? Ve lo dico io! Quella che susciterebbe un Lord Ruthven, il vampiro di Lord Byron."

Il problema, a questo punto, è che per quanto uno cerchi questo Lord Ruthven nelle opere di Byron, non riesce proprio a trovarlo. Questo, semplicemente perché Byron non ha scritto di nessun Lord Ruthven. Ma non per questo il grande poeta c'entra di meno in questa storia.

Lord Byron, si sa, non era proprio lodato per la sua condotta esemplare tra i suoi simili. Era eccentrico (= strambo), piuttosto autoreferente, professava un amore abbastanza incestuoso e adultero, aveva debiti a non finire, e soprattutto scriveva poesia divina. E tutto questo, naturalmente, porta con sé molti ammiratori, ma anche creditori, invidiosi, denigratori e deploratori. Il modo più sbrigativo e anche meno indolore per togliersi tutti questi fardelli di dosso fu quello di auto-esiliarsi. Dopo il breve matrimonio e il massacrante divorzio da Annabelle Millblank, nel 1816, stanco del disprezzo generale, parte alla conquista dell'Europa, da solo o quasi. Con lui porta solo un certo John William Polidori, un giovanissimo medico che doveva occuparsi della sua salute.

John William Polidori
Il giovane Polidori, come uno ben sospetta, è entusiasta della fortuna che gli spetta. Tanto più che Lord Byron lo tratta da pari. Nonostante questo, la convivenza non dura che pochi mesi. Il carattere di questo ragazzo di origini italiane risulta troppo querulo, cocciuto, persino esasperante per il Lord.

Prima della separazione, Polidori e Byron incontrano sul lago di Ginevra Percy Bysshe Shelley con le sue due accompagnatrici (una é l'amante di Byron, Claire Clairmont, l'altra é la compagna di Shelley, quella Mary che poi darà alla luce il famoso Frankenstein) e, tanto per passare le serate, giocano a mettersi paura a vicenda con storie macabre e di fantasmi. Così, in uno di questi incontri, a qualcuno viene la brillante idea di fare un gioco: scrivere ognuno una storia dell'orrore.

I protagonisti ci si mettono di polso buono. Ma dopo un po' Byron si stanca, gira e rigira su un soggetto che non riesce a decollare e senza rimorsi lo "cede" al suo dottore, Polidori.

Dopo qualche tempo, Polidori ritira fuori il soggetto, lo rielabora per far contenta una dama, ci aggiunge qualcosina e voilà, ecco confezionato The vampyre, a tale.

Vi chiederete: cosa ci aggiunge?
Ci aggiunge il vampiro.

La storia di Byron prevedeva: partenza di due amici dall'Inghilterra, morte di uno di loro in Grecia non prima di aver estorto all'altro il giuramento di mantenere segreta la sua morte, ritorno dell'amico morto e innamoramento della sorella dell'amico vivo dell'amico morto. Ok, un po' nebuloso. Ma se leggete Il vampiro la trama fila. Polidori trasforma l'amico destinato a morire e tornare, un certo Lord Ruthven, in un vampiro e la storia assume una logica orrorifica che regge bene. 

Lord Ruthven visto da lilywight.com
Al momento della pubblicazione (1819), l'editore, un po' per sbaglio, un po' apposta, ascrive The vampyre, a tale alla penna di Lord Byron. E siccome doveva essere ben suo, perché era proprio da lui uscirsene con certe bizzarie, tutti lo credono possibile. In verità Byron lo dice chiaro e tondo: a me i vampiri fanno ribrezzo e non ho di certo scritto una cosa del genere. Ma se non ascoltano lui, figuriamoci se ascoltano il povero Polidori che rivendica con veemenza la paternità dell'opera.

Evidentemente, nessuno dei due riuscì a farsi credere se anche Dumas, nel 1844, diceva ancora che era Lord Byron l'autore di Lord Ruthven.

All'uscita del racconto, la storia di Lord Ruthven fu subito un successo. Naturalmente storie di vampiri giravano già, ma erano più che altro leggende o superstizioni popolari. Polidori, invece, crea un vero e proprio personaggio, gli dona una posizione sociale e lo avvicina, nell'immaginario collettivo, al quotidiano. Di certo avrà provocato non poco scalpore una simile operazione. Inutile dire che sulla sua scia, mille altri racconti si svilupparono a grande seguito, fino ad arrivare a Dracula e anche oltre, fino ai giorni nostri.

Questa é la storia del Lord Ruthven che funge da modello al nostro Conte. Ma chi funge da modello a Lord Ruthven?
Eggià, come potete intuire, la storia non finisce qui. ;)




giovedì 24 ottobre 2013

Stacchetto autobiografico



Ok, sto per fare una cosa che non avevo intenzione di fare, ma la devo fare.
Devo giustificarmi.

Probabilmente nei prossimi giorni, o forse nelle prossime settimane, la mia lettura sarà notevolmente rallentata, se non ferma del tutto. Questo vuol dire che di qui a non troppo anche i miei post lo saranno.

Le colpe so io a chi darle: prima di tutto alla Mocciosetta Piccola, che in un momento di rapimento fatale verso il water vi ha lasciato scivolare dentro non solo rotoli e rotoli di carta igienica, ma anche il mio povero lettore ebook.
Se-se, ridete pure! Infierite sulle mie disgrazie domestiche.



No, non è lei, ma l'espressione ci assomigliava.

Secondo, le do al corriere, che invece di scusarsi per il ritardo pazzesco, mi chiude il telefono in faccia. Ma non pensiate che sia stata colpa del mio tono di voce alterato. In seguito, quello della telefonata successiva, forse quello sì, avrebbe potuto giustificare, ma a quel punto persino lui aveva capito di aver fatto una cosa difficilmente riparabile...

Ecco qui, quindi, spiegate le mie ragioni. Siate clementi e non disperate: prima o poi riuscirò a tornare a leggere.


mercoledì 23 ottobre 2013

Montecristo e la collaboration



E con infinito ritardo, di cui mi scuso immensamente, mi accingo a concludere questo capitolo delle mie letture-scoperte sulla malandrina collaboration (detto con un tono aulico, ma non troppo :D).
I due carcerieri gettano Edmond in mare
A questo punto uno si potrebbe chiedere (e a diritto) quanto abbia inciso il lavoro di Maquet in un'opera tra le tante... mettiamo... nel Conte di Montecristo, ad esempio. Tanto più che il carattere che dona a opere come I Tre moschettieri o la Reine Margot quella allegria goliardica che li colora, raramente si posa sui protagonisti e i dialoghi del Conte di Montecristo.

Già all'epoca della pubblicazione si sospettava che la storia non fosse tutta frutto dell'immaginazione di Dumas. La attribuivano ad un certo italiano Fiorentino che probabilmente lo scrittore aveva incontrato durante uno dei suoi viaggi in Italia. Tanto era il rumore intorno a questo pettegolezzo che Dumas stesso sente il bisogno di spiegare le circostanze della nascita di Montecristo. Circostanze che ritroviamo nelle Causeries apparse in volume nel 1860, ma già pubblicate altrove. Qui, in breve, Alexandre Dumas racconta le varie circostanze che gli hanno stuzzicato la fantasia. Tra queste non manca una visita all'isola d'Elba e a Montecristo con il giovane figlio del re di Vestfalia Girolamo Bonaparte e le Mémoires di Peuchet. Allo stesso modo nega la partecipazione di questo signor Fiorentino alla stesura del Conte, pur non estromettendo il lavoro di Maquet.

Mercedes e Montecristo

Maquet, a sentire Dumas, aveva partecipato solamente dandogli un buon consiglio. L'opera primitiva contava solo il capitolo Romano e quello Parigino, lasciando fuori tutta la giovinezza e la prigionia di Edmond Dantès. Maquet, a cui Dumas aveva chiesto un parere, gli aveva fatto notare che sarebbe stato un peccato lasciar fuori la parte più interessante. Così l'autore si era facilmente convinto e aveva introdotto tutta la vicenda di Marsiglia.

Secondo la campana di Maquet, il suo stesso contributo era stato un pochino più sostanzioso di quello raccontato da Dumas, tanto che nella sua lista delle opere compiute, scrive:

Monte-Cristo avec Dumas, les quatre premiers volumes à Marseille, le reste à Paris.*
(Montecristo con Dumas, i primi quattro volumi a Marsiglia, il resto a Parigi.)

M. Morrel, Valentina e Jacopo
guardano il conte sparire all'orizzonte



Allo stesso tempo, sempre nei suoi appunti, si ritrova una lettera al suo amico Paul Lacroix in cui afferma che, poiché il Signor Fiorentino ha ceduto a Dumas delle storie di Roma, potrebbe pur essere chiamato collaboratore, ma che al piano dell'opera come anche all'esecuzione dei capitoli hanno lavorato solo lui (Maquet) e Dumas. In ogni caso, riconosce di non aver avuto parte alla stesura della parte centrale, quella romana, parte che secondo lui non ci azzeccava molto col resto, sebbene avesse potuto avere un suo valore se pubblicata a parte. E a questo punto, Maquet si chiede se la storia di Vampa sia del Signor Fiorentino e si risponde con un
Peut-être.
Il Conte di Montecristo: opera a sei mani?
Io preferisco pensarlo come l'opera che più di tutte ha avuto Dumas come padre, anche se conoscendo ormai il suo modo di lavorare, non dubito che la storia del brigante Vampa derivi da altra fonte.

Segnalo, infine, che le immagini sono state riprese da
 http://www.cadytech.com/dumas/galerie.php


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* Histoire d'une collaboration,
Gustave Simon, 1919.

sabato 19 ottobre 2013

I collaboratori Dumas-Maquet


Ero quasi quasi tentata di concludere il capitolo Maquet così, senza aggiungere altro, ma mi dispiaceva tagliare fuori questo:




Questo è un film uscito nel 2010, con Benoît Poelvoorde nella parte di Maquet e Gérard Depardieu in quella di Dumas. La regia? Safy Nebbou.

Se lo cercate in italiano, impossibile trovarlo. O almeno per me lo è stato. Si trova in sottotitoli, ma capisco che non tutti siano disposti a perdere magari una preziosa serata di relax a strabuzzare gli occhi su scrittine mozzicate.

Eppure, il film, alla sua uscita, fece parlare tanto. Purtroppo non a causa del soggetto o della messinscena, ma a causa della scelta del Dumas. Certo, che ci azzecca l'albino Gérard Depardieu con il mulatto Dumas? E non contestatemi che Depardieu non sia albino. Lo so, ma in confronto a Dumas ci può passare, no?

Locandina di teatro
Il film in verità ha ben peggiori mancanze. Ma siccome sono sicura che nessuno lo vedrà (peccato, la recitazione dei due protagonisti la trovo estremamente riuscita); dicevo, siccome sono sicura che nessuno vedrà L'autre Dumas, sorvolo sulle sue debolezze e aggiungo solo che è stato tratto da una pièce teatrale di Cyril Gely e Eric Rouquette e messo in scena nel 2003 col titolo Signé Dumas. La pièce è priva dell'elemento romanzesco (non c'è rivoluzione o stacchetto amoroso), ma si concentra sul rapporto dei due collaboratori.
 

Vi avverto: per chi è abituato a considerare Dumas un eroe del romanzo storico (me per prima), sarà uno shock accorgersi di quanto l'affermazione sulle labbra di Maquet nel trailer ("Sono io Dumas!") possa essere vera.

Leggere La Belle Gabrielle* del solo Maquet è stato illuminante in tal senso. Si percepisce lo stesso tono allegro e sfrontato dei Tre Moschettieri: la leggerezza goliardica dei dialoghi, i caratteri sempre fedeli a se stessi, la trama storica. Ok, forse a volte la narrazione risulta un pochino appesantita da dettagli politici complessi o da elugubrazioni narrative superflue. Come quando il giovane personaggio, invece di correre e scavalcare il muro che lo separa dalla sua amata e per cui si è scapicollato per ore, si ferma ad osservare il ruscello che disseterà il cavallo e si assicura che, legandolo, esso abbia corda a sufficienza per brucare un'ora. Ma al giovane innamorato, e soprattutto a noi lettori, che importa del cavallo in quel preciso momento d'attesa? D'accordo, è un bravo giovane persino con il suo bravo animale, ma si era già capito in diversi dettagli narrati in mille modi diversi, non c'era ragione di infierire.


Tornando al nostro Maquet, fa simpatia la sua figura silenziosa completamente sopraffatta da quella più rumorosa e suadente di Dumas. E lui, Dumas, nonostante tutto non riesce a diventare ai miei occhi il "cattivo opportunista". Il suo genio, magari, è ridimensionato, ma non per questo oscurato. È pur sempre lui che dà verve ai loro lavori comuni. Quello che ho adorato in Dumas diviene quello che adoro, ora, nella collaborazione Dumas-Maquet. Nessun senso di delusione, ma solo affetto per due scrittori che sono diventati grandi solo dopo essersi trovati.
E ciò mi basta.

A questo punto mi verrebbe quasi voglia di partire in quarta verso una dissertazione colta sulla definizione dell'opera d'arte quale forma o contenuto...
Ma no, lasciamo stare. Tanto non ci sarei capace. :D

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* La Belle Gabrielle di Auguste Maquet uscì nel 1854-1855, romanzo in tre volumi che nelle intenzioni di Maquet doveva collegare La dame de Monsoreau e Les trois Mousquetaires, opere create in collaborazione con Dumas. Sebbene sconosciuta ai nostri giorni, all'epoca La Belle Gabrielle fece un buon successo, come anche gli altri due romanzi storici di Maquet: Le Comte de Lavernie e La Maison du Paigneur.

mercoledì 16 ottobre 2013

Dumas e il suo "nègre"

Dumas: scrittore estremamente prolifico, tanto da chiedersi quando dormisse. Un po' di date possono far comprendere il mio punto:

Les trois Mousquetaires: marzo-giugno 1844
Vingt ans après: gennaio-agosto 1845
Le comte de Monte-Cristo: agosto1844-gennaio 1846 
La reine Margot: dicembre-aprile 1845
Une Fille du regent:1845
La dame de Monsoreau: 1846
Le bâtard de Mauléon: 1846-1847
Joseph Balsamo: 1846-1848
Les Deux Diane: 1846

L'elenco delle opere di Dumas realizzate o intraprese in un biennio sembra infinito. E vale la pena ricordarlo: non stiamo parlando di raccontini, ma di romanzoni in tre o quattro tomi ciascuno.

Ora: è vero che Dumas figlio dice di aver visto il padre al lavoro anche per 12 ore filate, è vero che aveva un'infarinatura di eventi storici particolari (tra il 1839 e il 1840 aveva pubblicato Crimes célèbres, una raccolta di 18 racconti con una base documentale molto approfondita di fatti storici che di tanto in tanto fanno capolino nei suoi romanzi), e può anche essere vero che alcuni lavori li aveva sviluppati almeno in forma embrionale in precedenza. Ma, nonostante questo, fa difficoltà pensare che lui da solo sia riuscito a mettere  insieme una simile produzione.

Ed infatti, come si sospetta, c’è dietro un nègre, un ghostwriter conclamato, anche se non proprio acclamato. Il più celebre tra i vari che lo aiutarono fu lui:
Auguste Maquet
Alcuni dicono di lui che fosse un ricercatore di fonti e fatti storici, un "preparatore", altri un segretario. In realtà Dumas stesso lo riconosce più volte come suo collaboratore e ne loda il lavoro.

Ma cosa vuol dire esattamente "collaboratore"?

Beh, collaboratore è colui che trova il soggetto, lo sviluppa in un piano dettagliato, ne traccia i capitoli e i dialoghi.

No, non confondiamo i ruoli. Non stiamo parlando dello scrittore vero e proprio. Stiamo parlando di Maquet che, un po' per timidezza, un po' per compenso, non osa esigere il suo nome accanto a capolavori come I tre Moschettieri o La regina Margot se non in tarda età.

E allora, vi chiederete voi, cosa resta da fare allo scrittore vero e proprio, colui che firma le opere e che si prende tutto il merito?

Beh, secondo Gustave Simon e il suo Histoire d'une collaboration* (1919), non gli resta che trascrivere i manoscritti che gli vengono consegnati, facendoci delle modifiche, ben inteso, aggiungendo episodi, rendendo la lettura più scorrevole in base ai suggerimenti che il suo talento spropositato gli dettava.

Perché alla fine la grandezza di Dumas era proprio questa: riprendere la storia zoppicante di altri e trasformarla in una storia entusiasmante.

Ma non giudichiamo questa prassi come truffaldina. Nell'800 non era raro assistere a queste forme di collaborazioni, anzi! Era una pratica comune che pochi aborrivano.

E allora, perché Dumas non accontenta Maquet e gli concede di firmare come coautore?
Probabilmente, per una semplice questione di diritti d'autore. Soldi. Il compenso che Maquet prendeva come collaboratore era misero in confronto ai diritti d'autore che Dumas ricavava dai romanzi e dai drammi che ne ricavavano insieme.

Ma sia ben chiaro, Dumas non era attaccato al denaro, al contrario: era fin troppo prodigo. E proprio per questo aveva costante bisogno di denaro, per accontentare i creditori e mantenere il suo stile di vita eccentrico. Ecco perché non poteva permettersi di spartire gli entroiti dei diritti d'autore con il suo co-autore Maquet.

Naturalmente Maquet viveva non troppo bene questa situazione. Nel 1857-58 , quando i loro rapporti erano già deteriorati e la collaborazione solo un ricordo, Maquet intenta un processo contro Dumas. Il pretesto era quello di recuperare del denaro che quest'ultimo gli doveva per il suo lavoro, ma in verità mirava al riconoscimento del suo nome accanto a quello del grande scrittore nei loro lavori comuni. Non vinse. O meglio, gli fu riconosciuto il diritto di essere risarcito (cosa che non avvenne mai), ma il suo nome non comparve mai accanto a quello di Dumas.

Eppure una sorta di giustizia lo compensò, almeno in parte. Maquet scrisse altri romanzi storici firmati solo da lui che ebbero un buon successo, tanto da permettergli una vita agiata e vivere il resto dei suoi giorni da uomo ricco. Il contrario del suo mentore che morì povero, incapace di ripetere il successo ottenuto durante la collaborazione con il suo nègre. Certo, la gloria va a quest'ultimo. E credo che Maquet avrebbe volentieri rinunciato al suo patrimonio in cambio di un po' di quella gloria. 

Ma non si può avere tutto dalla vita, no?

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* L'Histoire d'une collaboration di Gustave Simon (1919) riordina le carte e i documenti che Maquet lascia alla sua morte.


martedì 15 ottobre 2013

Stacchetto catacombale


Forse non tutti sanno che sotto Parigi si nasconde un budello di cunicoli lungo circa 300 km. Al giorno d'oggi non tutti e 300 sono visitabili, ma quei pochi bastano per farsi un'idea.



Le catacombe (così le chiamano) nacquero non tanto per conservare resti mortali, ma per portare alla luce il materiale di costruzione di cui si servivano già i romani per edificare in superficie. Per non destabilizzare troppo il terreno, le gallerie vennero scavate a circa una trentina di metri sotto terra, più in profondità ancora rispetto alle tubature fognarie e ai tunnel della metro.

Nel tempo sono servite agli scopi più disparati: luoghi in cui nascondere tesori, in cui gettare ossa dei cimiteri caduti in disuso; covi di riunioni segrete o nascondigli per briganti (il più famoso dei quali Cartouche); siti in cui stipare prigionieri o vini pregiati.

Se vi capita di passare a Parigi (beati voi!!!), fateci un salto. Chissà che non passiate proprio davanti al muro in cui il povero poliziotto di Peuchet riposa da oltre un secolo e mezzo.
Catacombe di Paris

domenica 13 ottobre 2013

Tra catacombe e Amontillado


Ecco un'altra storia che vorrei raccontare, trovata ancora nelle Mémoires di Peuchet, e poi giuro che smetto di tormentarvi con le sue storie gotiche. 
Questa volta si tratta della storia di un poliziotto, ligio - fin troppo - al suo dovere.




Napoleone Bonaparte
Antefatto: siamo nel 1821 e voci circolano che Napoleone sia riuscito a fuggire da Sant'Elena e solchi i mari a tutta birra verso Parigi. La notizia destava preoccupazione, visto che non era la prima volta che Napoleone faceva uno scherzetto del genere. Lo aveva fatto già nel 1815, anche se a quei tempi era tornato dall'isola d'Elba e, si sa, l'isola d'Elba è dietro l'angolo rispetto a Sant'Elena. In ogni caso, gli avvistamenti di Napoleone su suolo francese crebbero a dismisura. La polizia di Parigi, allora, drizzò le orecchie, spalancò gli occhi e tutti si diedero un bel da fare per sventare complotti, veri o presunti che fossero. 

In questo clima di solerte circospezione, un agente di polizia di stanza nel quartiere Sainte Geneviève viene insospettito da una casa. Eggià, gli sembrava strana quella casa con le persiane sempre chiuse, ma senza scritte di messa in vendita o affitto. Tanto più che ci vedeva entrare di soppiatto dei loschi figuri, sempre in coppia, sempre guardinghi. Per non parlare del fatto che, una volta entrati, non ne uscivano più. 

Il buon agente decide di mettersi di guardia all'abitazione. Aspetta paziente per lunghe ore e nota infine che il traffico sospetto aumenta intorno al calar del sole. Preso dal senso del dovere, si fa coraggio e affianca un paio di questi individui sospetti. I due lo scambiano per uno di loro e lo invitano ad entrare per cenare insieme. E lui non se lo fa ripetere due volte.

Entrati, un corridoio lugubre li attende con un'unica candela affissa al muro a rischiarare il passaggio. In fondo ad esso, uno dei due chiede: "Saliamo o scendiamo?". L'altro, senza esitare, suggerisce di scendere, perché la compagnia è migliore. 

E cosa trovano al piano di sotto? Ma certo! Una caverna piena zeppa di briganti, ladri, greci, ebrei e chi più ne ha più ne metta. E tutta questa folla di sospetta morale si raccoglieva intorno a delle pietre che fungevano da tavoli e mangiavano il pasto servito da una ostessa rivoltante.

A questo punto, l'agente inizia ad avere un pochino di paura: e se qualcuno lo riconoscesse? Magari tra questi malfattori c'è anche qualcuno che lui stesso ha arrestato. Ma no, sembrano tutti estremamente impegnati nelle loro cose, nessuno fa caso a lui. 

L'arguto agente si accomoda e, tra un boccone e l'altro, studia la situazione fino a quando giunge il momento di pagare, si avvicina alla vecchia ostessa e chiede il conto. Lei, vedendolo strano, gli chiede se è nuovo del mestiere e, tra una chiacchiera e l'altra, nel tentativo di decidere in quale ramo vuole specializzarsi, spedisce il giovane ai piani alti, laddove ci sono i mascalzoni che si interessano alla politica.

Convegno di cospiratori, T. Géricault
Ai piani alti, il poliziotto li trova davvero! Eccoli lì i cospiratori che non perdono tempo in chiacchiere e subito lo ingaggiano a suon di denaro e parole segrete. Ma tra discorsi e segni di riconoscimento, la notte si fa alta e il nostro eroe si rende conto di sfidare un po' troppo la fortuna. Così saluta e torna indietro per regolare ancora una volta i conti con l'ostessa. Eggià, anche i cospiratori mangiano e, probabilmente, bevono. 

L'ostessa lo accoglie con garbo e, siccome "niente torna qui sui suoi passi. Una volta partiti bisogna sempre andare avanti", invece di farlo uscire per la porta da cui è entrato, lo conduce tra passaggi, scale e cunicoli, tutti sapientemente celati da una benda sugli occhi del poliziotto. Quale timorosa sorpresa lo attende quando si ritrova davanti casa sua, con al suo fianco i due tizi che gli avevano fatto da scorta. 

Per fortuna i due non sembrano desiderosi di salire fin dentro casa. Lì avrebbero scoperto la convivente del poliziotto e sicuramente quella santa donna, orgogliosa come era del suo amante, lo avrebbe involontariamente tradito. Ma tutto è bene quel che finisce bene. O quasi. 

Il poliziotto passa tutta la notte a redigere il suo rapporto e la mattina seguente lo consegna immediatamente. Ed immediatamente, dopo solo un'ora, tutto viene arrangiato: cambio di abitazione per la convivente, sistemazione dell'appartamento a fine cospirativa e ordine di attendere 3-4 giorni prima di intraprendere ulteriori passi. 

Passato il tempo stabilito, il poliziotto si ripresenta al portone, entra, ma non ne uscirà mai più.

La polizia lo cerca, ma nulla. Allora forza la porta della casa sospetta, ma anche lì, oltre al corridoio non si va. Il passaggio per salire o scendere sembra scomparso. E così, impossibilitata a fare altro contro una casa senza proprietario, la brava polizia rimane un po' stordita, chiedendosi dove potesse essere finito il buon poliziotto. 

Dopo una ventina di giorni, l'arcano si disvela: il prefetto riceve un processo verbale in cui viene rivelata la fine del ligio poliziotto.

Sfortunatamente, qualcuno lo aveva davvero riconosciuto. Una volta tornato nel covo, i briganti lo avevano preso, ammanettato e trascinato in lungo e in largo per le catacombe di Parigi fino ad arrivare in una sala dei giudizi. Qui, giudici e spettatori incappucciati istruirono un processo formale e, trovatolo colpevole senza difficoltà, lo condannarono al supplizio dell'emmurement: in poche parole lo murarono vivo, lasciandolo morire di fame, sete e terrore in uno degli innumerevoli cunicoli nel sottosuolo parigino.

Storia di catacombe e di ladri, che echeggia in parte nelle pagine del Montecristo. Ma anche in altre pagine d'oltre oceano: catacombe, murati vivi... che anche Edgar Allan Poe si sia ritrovato una copia delle Mémoires di Peuchet tra le mani?

 



venerdì 11 ottobre 2013

Il piedino in giardino


Come accennavo nel post precedente, Peuchet raramente si attiene al solo riportare i documenti in suo possesso. In una di queste rare volte, la storia che ne esce fuori è così raccapricciante da giustificare in parte questa sorta di distacco che l'autore prende dalla storia.

Ok, diciamo pure che non ha voluto metterci del suo perché i protagonisti non solo erano di alto rango, ma erano ancora in vita all'epoca in cui scriveva. Meglio non compromettersi troppo. Allora il buon archivista cancella dai documenti i nomi, alludendo alla famiglia di un generico Marchese de C. in rue D. e riporta testualmente tre documenti:

1) La denuncia
- Nella casa del Marchese de C., in rue D., sono le 9 del mattino e i domestici riuniti nella loro camera comune vedono arrivare uno dei cagnolini con una massa informe e sanguinolenta tra i denti. Con orrore si accorgono trattarsi di un piedino di neonato. Cercando nel giardino, poi, ritrovano il resto del corpicino smembrato e gettato nel cumulo del terriccio per la serra.
- Dopo quattro giorni, un altro triste fatto tocca la famiglia: il nipote del giardiniere, cresciuto nella proprietà e trattato come uno di famiglia, nel tentativo di raddrizzare la freccia del parafulmine in cima al tetto, cade di sotto nonostante i tentativi di salvarlo dei due cugini della casa saliti sul tetto per aiutarlo. Il ragazzo muore.
- La domenica seguente, dopo la Messa, la seconda figlia del Marchese chiede di far visita alla superiora del convento e da lì non vuole più uscire.
- Ultimo fatto: lo stesso giorno, la cameriera personale della figlia del Marchese, a cui era stata data una ricca dote, si fidanza con il fratello del defunto e tutti e tre, insieme al vecchio giardiniere-nonno, partono per il paese natale del novello sposo a tempo indeterminato. 
In verità, la nota non denuncia, ma esorta ad indagare su delle coincidenze che in effetti puzzano un po'.

2) L'inchiesta:

Non si procederà ad ulteriori indagini perché:

- Il cadavere del neonato non è stato rinvenuto nel giardino. Il resto del corpicino proveniva dal cadavere di un neonato nato morto che un medico del vicinato aveva disseccato e la cui profanazione sacrilega fu causata unicamente dalla stupidità della sua domestica.
Villefort scava in giardino.
- Il ragazzo caduto dal tetto è stato vittima della sua imprudenza; anzi, ha messo a rischio non solo la sua vita, ma anche quella dei due bravi ragazzi che hanno tentato di trattenerlo (ben gli sta! - Ndr).
- La figlia del Marchese, colpita dall'incidente del giovane e ragionando sui massimi sistemi della vita, affrettò semplicemente una risoluzione che aveva già intenzione di adottare: quella di entrare in convento.
- La figlia del Marchese, prima di abbandonare la vita mondana, ha pensato alla sua domestica personale e al fratello del povero ragazzo defunto, lasciando loro una bella dote.
E tutti vissero felici e contenti.
3) Il rapporto:

(Testimonianza presa dal tappezziere della famiglia, parente del ragazzo morto)
- Il bambino a cui apparteneva il piedino era nato dalla relazione del nipote del giardiniere con la figlia del marchese, donna di natura isterica e già accusata in precedenza di aver avuto un intrigo con un seminarista precettore dei suoi fratelli e cugini.
Indovinate come si vedevano? Non solo le infinite passeggiate nel giardino della dama e le lunghe ore che dedicava al giardinaggio, sua passione nascente, alimentarono la nascente passione, ma anche la scala di servizio che dal giardino saliva direttamente alla mansarda dove il giovane dormiva (ricorda un pochino la scala di servizio di cui si serviva Villefort per far visita alla futura Mme Danglar nella villa di Auteil).
Quindi, la figlia del marchese, rimasta incinta e con la complicità della sua domestica, al settimo mese aveva provocato un aborto. Il corpicino, era stato estratto in parti (perdonate l'esposizione nuda e cruda del fatto) e gettato tra il terriccio della serra in modo provvisorio. Il cane impertinente ha fatto il resto.
- Scoperto il misfatto, i parenti della giovane donna, tra cui un cugino perdutamente innamorato della perfida donna,  si sbarazzano del giovane e lo gettano dal terrazzo più alto/tetto/o quello che era.
- La peccatrice viene costretta al convento.
- La famiglia del povero assassinato chiede conto al marchese del sangue del parente morto e riceve la domestica testimone di tutto il brutto affare accompagnata da una bella dote e da una fattoria situata il più lontano possibile da lì.
Beh, a dir la verità, Peuchet non si sbilancia, ma non sembra nemmeno troppo vacillare nel dubbio, soprattutto quando sussurra che il tappezziere non aveva invidie per cui diffamare la famiglia del marchese.

Ed ecco come poi chiude il suo resoconto:
Quanto a me, poiché non voglio aumentare lo scandalo, ho preso tali precauzioni per cui, pur denunciando le linee generali della storia, non ho fatto altro che tutt'al più preparare un canovaccio da dramma per i nostri moderni Lachaussée.*
 E con questa ripresa quasi pirandelliana, vi saluto anche per oggi.

* Pierre-Claude Nivelle de La Chaussée: drammaturgo francese del 1700 creatore del genere della comédie larmoyante, una sorta di drammone che si conclude positivamente tra lacrime e riconciliazioni.

martedì 8 ottobre 2013

Lo stile delle Memoires di Peuchet


Pensavate che il capitolo sulle Mémoires di Peuchet fosse finito, vero?

E invece no. Ci sono ancora molte cose da dire e da cui partire per arrivare chissà dove.

La prima idea che mi è venuta in mente da subito, leggendo le Mémoires è stata: "Ecco, nel secolo scorso (che in verità sarebbe l'Ottocento, ma che per una sorta di abitudine nostalgicheggiante continuo a chiamare secolo scorso) avevano tutto un altro stile, questi documentaristi."

In effetti, il lavoro di Peuchet ha poco dello stile distaccato proprio degli archivi storici o cronachistici.
È facile immaginarselo al lavoro: seduto alla sua scrivania, con mille atti, rapporti, documenti di varia origine, a scartabellare e ricontrollare. Poi prende carta e penna e inizia a raccontare la storia suggerita da tanti piccoli frammenti, infilandoci cenni storici di breve natura quando necessario, dialoghi veri o presunti che comunque devono essere stati pronunciati in quel modo, anche se nessuno può testimoniarlo, stralci di lettere e altri frammenti ancora, dando al tutto un ordine cronologico più congruo quando serve e persino intagliando il carattere dei personaggi, fino a farne dei modelli umani esemplari. Così escono fuori il vendicativo (Allut-Caderousse fin dal primo momento avverte i suoi amici di non scherzare con Picaud-Dantès, perché è un uomo vendicativo che te la fa pagare), l'invidioso per antonomasia (Loupian, il ladro di fidanzate e doti), l'avido (Allut-Caderousse), ma anche i vari Ministri della polizia succedutisi negli anni, tagliati e giudicati a seconda delle loro mire e della loro cupidigia o del partito contrario o meno preso.
A ben guardare, si potrebbe dire che l'archivista stesso si rivela a tratti uno scrittore di romanzi mancato.

Risultò quindi seducente per Dumas lasciarsi trasportare dalle storie raccontante nelle Mémoires e trovarvi un filo che legasse i tanti frammenti  forniti su un piatto d'argento. Sì, perché la storia di Picaud non è la sola che viene dalle Mémoires e da cui Dumas ha preso spunto per il suo Montecristo.

Vi è anche la storia che riguarda un assassinio compiuto in famiglia per mezzo del veleno. Per ora non posso darvi ulteriori informazioni in proposito perché non sono riuscita a trovare l'episodio nei volumi V e VI delle Mémoires, gli unici due che ho letto. So che esiste una versione tradotta in inglese, disponibile in formato elettronico e dal costo esiguo.Il titolo è A family crime di Jacque Peuchet e tradotto da James Bair. Dello stesso traduttore c'è anche The diamond and the vengeance.
Ma se masticate anche un po' di francese qui potrete trovare la versione scaricabile delle Mémoires volumi  V e VI e qui i volumi III e IV.

Ci sono anche altri piccoli dettagli presi qua e là in altri resoconti. Ci sono, ad esempio, briganti e catacombe, un banchiere/armatore che, non potendo saldare nell'immediato un debito perché in attesa di un carico su una sua nave che non arriva, medita un suicidio e poi viene salvato in extremis da un brigante benefattore, e c'è la storia del corpicino di un neonato ritrovato nel giardino.

Ma questa storia la lascio per la prossima volta. Per oggi vi saluto qui.



domenica 6 ottobre 2013

Stacchetto araldico


Avrei voluto scrivervi una bella introduzione all'araldica, con tanto di stemmi, motti e figure. Ma devo ammetterlo, mi sono bastate poche righe lette qua e là per iniziare a sbadigliare sonoramente. Ops...

Ok, sarà anche affascinante, e lo è, lo so, ma magari è anche meglio se fatto con giudizio, su un buon manuale, passo a passo. Insomma, l'argomento non si presta troppo a diventare uno stacchetto. E allora vi rinvio a Lo stemma nobiliare di Salvatore Comisi, che in poche righe riassume quel poco che ho capito degli stemmi.

E siccome sono cattiva, vi lancio anche una sfida:

Stemma araldico del Conte di Montecristo
Sapete dire dov'è la stranezza nello stemma di Montecristo?

Vediamo chi ci azzecca. E chi ha la pazienza di leggere fino in fondo l'articolo sull'araldica. :D

sabato 5 ottobre 2013

Dei nomi e dei titoli


Avete ragione: non abbiamo ancora parlato del nome e di quel titolo nobiliare che sarebbe dovuto spettare allo scrittore Dumas, ma che in verità non gli è mai arrivato. Come accennato, la colpa è del Padre, o meglio, dei rapporti tra Nonno e Padre.

Ma andiamo con ordine. Prima qualche avvertenza doverosa.


Quella che racconterò qui di seguito non è la verità degli storici, ma è quella delle Mes Mémoires di Alexandre Dumas. I fatti andarono, con ogni probabilità, un po' diversamente. Se vi va di approfondire, c'è una biografia del Padre di Dumas scritta da Tom Reiss e dal titolo Black Count. Ok, dall'introduzione intuisco che forse Reiss fantastica un pochino quando afferma che la vicenda del Padre abbia ispirato la storia del Conte di Montecristo. Noi abbiamo già visto da dove viene. Ma, a parte questo, i recensori assicurano che sia un buon lavoro dettagliato e onesto e, fino a prova contraria o fino a quando qualcuno di voi più appassionato di me alle carriere militari non lo legga e mi tolga il dubbio, io mi fido.

Ma basta tergiversare e iniziamo questo luuuungo capitolo.

Si parte dal Nonno, Antoine-Alexandre Davy de la Pailleterie, colonnello generale d'artiglieria, possessore delle terre della Pailleterie, dichiarate "marchesaggio" da Luigi XIV nel 1707. Un marchese, insomma, non estraneo alla corte di Versaille, che verso il 1760, per non si sa bene quale ragione, vende le sue terre e si trasferisce a Santo Domingo (Haiti) in una immensa proprietà. Qui nasce il Padre. La Nonna è una donna di colore (a detta degli storici una schiava comprata a caro prezzo) che nel 1772 muore, lasciando il Nonno che tanto l'amava e la casa in uno stato di abbandono totale. Il Nonno, allora, vedendo la casa cadere in rovina, affitta le proprietà, prende il Padre e se ne torna a Parigi. Era il 1780, anno più anno meno.
Il Padre aveva 18 anni. Il Nonno, facendo un rapido calcolo, 70. In verità, nella storia dei biografi, da quello che ho capito, si dice che il Padre sia stato venduto come schiavo e poi ricomprato dal Nonno per favorire questo transito da Haiti a Parigi e per pagare anche la sua, di traversata, e che il Padre non aveva che 14 anni all'epoca. Ma non avendo letto che trafiletti qua e là, non metto la mano sul fuoco.

A Parigi il giovane Padre si distingue nella società dell'epoca senza troppa difficoltà: era un bel giovane la cui carnagione mulatta donava un certo fascino tra le signore. Era abile in qualsiasi esercizio fisico, ottimo schermitore dalla forza erculea, insomma, un personaggio che non passava inosservato, né tra gli uomini, né tra le donne.

Tutto procedeva nel miglior modo possibile per il giovane Padre, fino a quando il Nonno decise che era tempo di risposarsi e alla tenera età di 74 anni convola a nozze con la sua governante. Fu proprio questo matrimonio a raffreddare i rapporti tra Nonno e Padre. Al Padre non arrivavano più le risorse necessarie al mantenimento di un tenore di vita dignitoso nelle sfere dell'alta società e così prese la decisione di arruolarsi nell'esercito come soldato semplice e guadagnarsi da solo la vita.

Il siparietto che Dumas fa recitare al Nonno e al Padre nelle sue Mémoires nel momento in cui quest'ultimo annuncia al Nonno le sue intenzioni va riportato assolutamente:

Egli (il Padre) andò dunque a trovare il Marchese e gli annunciò di aver preso una risoluzione.
- Quale? - domandò il Marchese.
- Quella di impegnarmi.
- A che titolo?
- Di soldato.
- E dove?
- Nel primo reggimento.
- A meraviglia! - rispose mio nonno. - Ma, siccome io mi chiamo Marchese de la Pailleterie e sono colonnello e commissario generale d'artiglieria, non voglio che voi trasciniate il mio nome fino agli ultimi ranghi dell'arma.
- Allora vi opponete al mio arruolamento?
- No, ma vi arruolerete sotto un nome di guerra.
- È più che giusto, - rispose mio padre, - mi arruolerò col nome Dumas.
- Sia.
E il marchese, che non era mai stato, d'altronde, un padre molto tenero, voltò le spalle a suo figlio, lasciandolo libero di fare quel che volesse.

A questo punto, la prima cosa che il Figlio fa, oltre a rinunciare al nome paterno e al titolo di Marchese, è quella di cambiare anche lo stemma (ci pone una divisa) e il motto che divenne Deus dedit, Deus dabit (Dio ha dato, Dio darà). Motto un poco pretenzioso, se non lo avesse controfirmato lo stesso Dio, dice Dumas. In effetti, Thomas-Alexandre Dumas fece una rapida carriera da soldato semplice a generale e fu il primo uomo di colore a raggiungere questa carica nell'armata francese. I nemici lo chiamavano il Diavolo Nero e fu lui a spianare la strada attraverso le Alpi verso l'Italia nelle varie campagne militari della fine del '700 e poi con Napoleone.



Ho letto con piacere la storia del generale Thomas-Alexandre Dumas delle Mémoires di Alexandre Dumas. Magari risulta piuttosto romanzata, spesso si dilunga in antecedenti interminabili, oppure a volte sembra quasi ammiccare al lettore con quel suo sorrisetto ironico che dice: "Io lo so che è dura da credere, ma andò proprio così", ma nonostante questo, tutto gli si perdona davanti a quel misto di affetto e orgoglio che traspare da ogni siparietto, da ogni frammento del ricordo di un padre-eroe che scomparve dalla sua vita troppo presto (il piccolo Alexandre aveva solo quattro anni quando il Padre morì).


E questo è quanto, almeno per quel che riguarda il nome che tutti contestavano e che anche lui, Dumas père, come suo padre, non prese mai.




giovedì 3 ottobre 2013

Il Nonno, il Padre e il Meticcio



Fotografia a colori, Alexis Gouin

Je suis un des hommes de notre époque auxquels on a contesté le plus de choses.

Io sono uno degli uomini della nostra epoca a cui sono state contestate più cose.

È questo che si legge nella prima pagina delle Mes mémoires di Alexandre Dumas. E forse è vero. Persino il suo stesso nome gli è stato contestato. 
In verità, c’è  da dire che un pochino ci ha messo lo zampino suo Padre. Il suo vero nome sarebbe dovuto essere Alexandre Dumas-Davy de la Pailleterie, ma lo scrittore, come prima di lui, almeno da un certo punto della sua vita in poi, suo Padre, si è sempre e solo firmato col nome della Nonna: Dumas. E allora qualcuno iniziò a chiedersi del perché questa omissione. Che ci fosse del losco dietro? Un figlio illegittimo?

“No, cari miei. Se lo fossi stato, mi sarei rassegnato a nobilitare il mio nome con il mio solo merito, come fanno gli innumerevoli bastardi celebri da che mondo è mondo.” Ci scherza sopra lui. Tuttavia, atto di nascita alla mano, Dumas dimostra di essere proprio il figlio legittimo di Thomas-Alexandre Dumas-Davy de la Pailleterie, generale di divisione, nato a Jérémie, a Santo Domingo (Haiti) e residente a Villers-Cotterets, e di Marie-Louise-Élisabelh Labouret, sua sposa.

A questo punto, non ci possono essere dubbi. Bastardo non è e bisogna ci si rassegni.

Thomas-Alexandre Dumas
“Vabbè, se tu non sei bastardo, - gli fa notare un gentiluomo della magistratura che aveva studiato bene il nostro personaggio in una presunta biografia, - allora non ti firmi col nome Davy de la Pailleterie perché tuo padre non si è mai chiamato così, essendo lui, in realtà, il bastardo.”

A dir la verità, a questo punto anche a me sarebbero girate, figuriamoci al signor Dumas che ne aveva piene le scatole di sentirsi contestare la sua nascita, oltre a mille altre cose. Così, dopo aver apostrofato il suddetto gentiluomo con vari nomi propri e impropri,  produce un atto di matrimonio, quello di suo padre e sua madre, in cui naturalmente compaiono le parentele degli sposi e in cui si legge:

“Si annuncia ... il futuro matrimonio tra il cittadino Thomas-Alexandre Davy de la Pailleterie, dell’età di 30 anni e otto mesi, colonnello degli ussari del Mezzogiorno, nato in Guinodée, a Trou-Jérémie, in America, figlio del fu Alexandre-Antoine Davy de la Pailleterie, ex commissario d’artiglieria, morto a Saint-Germain en Laye nel giugno 1786, e della fu Marie-Cessette Dumas, deceduta in Guinodée, presso Trou-Jérémie, in America, nel 1772.”

Di Mme Marie-Cessette Dumas non si sa un granché.
È opinione comune pensare alla Nonna come una schiava concubina del marchese Davy de la Pailleterie, di non precisate origini, nera e forse deceduta, forse no, nel 1772.

Questo dettaglio, per quanto banale possa sembrare al giorno d’oggi, non era proprio una sfumatura di carattere all’epoca del Padre di Dumas e di Dumas stesso. Il fatto di essere di razza mista non precluse la carriera militare del Padre. Era comunque figlio di un marchese francese e il fatto di essere schiavo a sua volta poiché figlio di schiava, non voleva dire nulla nella Francia continentale: la Francia europea non ammetteva il titolo di schiavoMa di sicuro le sue origini furono anche la causa di qualche incidente. Come quella volta che, scambiato per lacchè di una dama che aveva accompagnato a teatro, si sentì costretto a defenestrare il moschettiere che aveva avuto l’audacia di scambiarlo per tale. Per fortuna, o forse per sfortuna, il moschettiere cadde sulla folla sottostante senza farsi troppo male, causando però dei feriti a sua volta.

Honoré de Balzac
Anche nella vita di Dumas il fatto di avere nelle vene sangue nero fu fonte di qualche amarezza. Spesso scrittori “avversari”, invidiosi del suo successo, lo apostrofavano con termini offensivi che rimandavano alle sue origini miste. Uno tra i tanti: Honoré de Balzac che, vedendosi sostituire il suo romanzo seriale Paysans da quello più fortunato de La Reine Margot, esprime pubblicamente il suo disprezzo usando l’epiteto “nègre”

Ma è anche il caso di Mirecourt, un giornalista e scrittore romantico, che scrisse un pamphlet contro Dumas  (Fabrique de Romans, Maison Alexandre Dumas et compagnie, 1845). Devo ancora ricercare il pamphlet, ma da quello che riporta Eric Martone nell'introduzione al lavoro The black Musketeer: Reevaluating Alexandre Dumas withing the Francofone World, Mirecourt attaccava la reputazione di Dumas giocando sul doppio significato della parola nègre che nel francese dell’epoca significava uomo di colore e ghostwriter (su questo aspetto della produzione di Dumas parleremo più avanti).            
Insomma, un esempio di condotta politically correct.

Per non parlare delle caricature di Cham e Nadar!



Certo, Dumas non è che incassasse il colpo in silenzio. C’è un aneddoto famoso che si trova in più versioni. In una si parla di una serata a cena e di un signore che chiede a Dumas cosa ne pensasse della situazione dei neri, visto che nel suo sangue scorreva sangue misto. Nell'altra si fa riferimento ad una serata a teatro e a un gruppo di giovani che, notando Dumas nel foyer, fa apprezzamenti a voce alta sull'origine nera dello scrittore. E lui, con il suo perfetto spirito tanto intonato al carattere di selvaggio che molti gli appioppano, risponde: 
Mio padre era un mulatto, mio nonno un negro e mio bisnonno una scimmia. Vede, Signore, la mia famiglia inizia dove la sua finisce.