martedì 31 dicembre 2013

Intermezzo di nuovo anno




Questi sono i fuochi più belli che io ricordi di aver mai visto dal vivo. Troppa gente, troppo rumore, anche un po' troppo fumo se vogliamo, ma che atmosfera strepitosa!




Non era esattamente il 2013, ma l'incanto prodotto era lo stesso.
Un altro piccolo motivo per andare a visitare Londra.

Ma anche se siete rimasti a casa a festeggiare tra quattro gatti con le stelline filanti (come abbiamo fatto noi), il mio augurio vi rincorre e vi becca comunque, ne sono sicura! E allora vi auguro un buon anno nuovo, scoppiettante come questi fuochi londinesi.




sabato 28 dicembre 2013

Letture natalizie






Capita, a volte, di essere trascinati nella lettura di qualche storia particolare solo per il fatto di sentirsi ispirati da una certa atmosfera. E l'atmosfera natalizia fa miracoli, ti fa fare tante di quelle cose insolite che durante l'anno sarebbe impensabile anche solo immaginare.
Sorridere a tutti gli estranei che incontri per le scale con un bel Buon Natale sussurrato sotto i baffi, aiutare signore con pacchi e pacchetti ad arrivare alla porta di casa, coccolare amorevolmente anche il più antipatico dei bambini dei vicini... cose così. E qualche volte ti fa venire pure voglia di leggere un racconto di Natale che fino a qualche settimana prima non ti sarebbe mai saltato in testa di prendere in mano. Un po' perché, diciamolo, leggere qualcosa di natalizio in un periodo non proprio natalizio non suona giusto. E poi perché quel qualcosa di natalizio é stato talmente usato e abusato che ti annoia solo l'idea di perderci tempo.

  
Charles Dickens, A Christmas Carol.
Prima pagina, Prima edizione del 1843
Sto parlando di A Christmas Carol, di Charles Dickens, naturalmente, il racconto di Natale più conosciuto al mondo dopo la storia della nascita i Gesù.


Siccome volevo aver qualcosa di cui parlare che c'entrasse col Natale, l'ho preso tra le mani, quasi senza aspettative, e ho iniziato a scorrerlo con sospetto. Proprio così, con sospetto, perché già dai primi paragrafi mi è venuto il dubbio che Dickens non giocasse proprio onestamente. Una voce narrante molto vivida, quasi fosse lei stessa un personaggio, si ritrova a raccontare con una vena quasi comica (tipica ironia dal tono inglese, oserei dire) una storia un po' natalizia e un po' qualcos'altro e ti rassicura fin da subito che parlerà di fantasmi, iniziando col dire: "Guarda che Mr Marley era morto, morto davvero, non ci sono dubbi!". Non è certo questo il modo di introdurre una storia di Natale, no? E tanto meno una di fantasmi.

Eppure, il carol di Dickens questo é: fantasmi con alcune scene davvero inquietanti (il primo apparire del socio morto mi ha fatto sobbalzare, lo ammetto, come anche il vagare di Scrooge per le scale desolate della sua dimora) e altre quasi esilaranti; d'altro lato, scene di Natale calde e vivaci, dai sentimenti positivi e di gioia.
Ed in mezzo, a far da tramite a queste due realtà così bizzarramente accostate, la nostra buona e vecchia voce narrante, pronta a filtrare e dosare la giusta quantità di terrore, poesia e allegria, ma sempre con una certa discrezione. E allora uno esita persino a definirla storia di fantasmi, questa storia.

Il racconto in sé è molto piacevole, molto... natalizio. :D
Per goderne tutta la bellezza in famiglia, siamo andati anche a scovare la versione cinematografica del 2009, opera di animazione splendidamente fedele all'originale. Io vi consiglierei di guardarla perché il regista è riuscito a rendere visivamente tutti gli effetti speciali che Dickens voleva produrre.
Senza contare che nella versione originale Jim Carrey impersona Scrooge e Colin Firth il nipote. Un bell'incentivo, a mio parere.





mercoledì 25 dicembre 2013

Intermezzo natalizio



E così, tra un post e l'altro, eccoci arrivati già a Natale!






















Non parlerò di libri, oggi. Userò questo spazietto natalizio per ringraziare te, lettore (probabilmente più  unico che raro) che passi di qui a leggere le mie facezie. Ti auguro un buon Natale, allegro e frizzante, pieno di lucine colorate e, perché no? - di buone letture e di film ispiratori.

Ma tra tanto rumore, ecco, ti lascio anche questo: O Magnum Mysterium di Tomás Luis de Victoria (1572). Tanto per ripulirsi di tutta la frenetica confusione che la preparazione al Natale sembra portare sempre con sé.




Ti metto questa versione con lo spartito, caso mai ti venisse voglia di canticchiarla come è venuta a me.
Forse poco elegante, è vero, ma in pieno spirito natalizio: per una volta non lo subiamo, il "rumore", ma lo facciamo. :D

E ancora una volta, Buon Natale. 



lunedì 23 dicembre 2013

Stacchetto culinario



Tempo di Natale, tempo di abbuffate. Sulla scia di questa tradizione mangereccia, ricette natalizie spuntano ovunque: blog di cucina, blog letterari, forum di mamme e di nonne, riviste e quotidiani, ovunque!
Potevo farmi sfuggire una simile occasione per infilarci qualcosa in tema?

Certo che no! Ma siccome sono un po' monotematica, e mi scoccia anche un po' macchiare il mio diario di lettura con qualcosa che non c'entra proprio nulla con i miei progressi, vi posto una ricetta sui generis.


Pain d'épices



Pain d'épices

Dai tempi più antichi, il miglior pain d'épices si produce a Reims. Alla fine del XV secolo, sotto Luigi XII il pain d'épices di Reims godeva di una grande reputazione e quello che si produceva a Parigi non era che di secondo rango.
[...]
Il pain d'épices si fa con del fior di farina di segale, della schiuma di zucchero o del miele giallo e di spezie; si fa cuocere il tutto dividendolo in pani dalla forma desiderata. Il pain d'épices stimola l'appetito, mette in moto e sostiene le forze digestive; ma non si deve mangiare che con moderazione.
[...]
I nostri avi lo apprezzavano grandemente e ne facevano dono. Nei pasti di corte figurava al primo rango. Agnès Sorel, la bella maîtresse di Charles VII, chiamata Dame de Beauté a causa del castello di Beauté che possedeva sulle rive della Marna e che le era stato donato dal suo amante regale, non si stancava mai di questa leccornia e diversi autori del secolo scorso hanno persino sostenuto che sia stata avvelenata con del pain d'épices dal delfino, il futuro Luigi XI, che non l'amava affatto proprio perché suo padre l'amava troppo; ma questa è una congettura che non si basa su altro che il carattere crudele e vendicativo di questo principe. Anche Marguerite de Valois, sorella di Francesco I, se ne deliziava. Ma sotto Enrico II, ci si disgustò tutto d'un tratto d'esso a causa delle voci che asserivano che gli italiani ci mettessero dentro del veleno. Non tornò in favore se non alla fine del regno di Luigi XIV, come abbiamo già detto più in alto.
[...]
La farina di segale rende questo pane un po' pesante; tuttavia, quando esso è ben confezionato e ben cotto, gli aromi che vi si impiegano lo rendono più digeribile. Il buon pain d'épices, fatto con del buon miele scelto, può aromatizzare, è lassativo, calma la sete e favorizza l'espettorazione. Affinché si conservi senza guastarsi con l'umidità e alterarsi nell'invecchiamento, bisogna cucinarlo convenientemente ed esporlo di tanto in tanto al calore del fuoco o del sole.

Eggià, non è proprio la ricetta che uno poteva aspettarsi, ma nonostante ciò, spero sia stata gradita. Tanto di più quando vi svelerò che l'ho rubata a Le grand dictionnaire de cuisine del 1873 a firma di Alexandre Dumas (padre). Ebbene sì, questa era l'opera che lui considerava corona di tutta la sua vasta produzione, compilata durante gli anni della malattia e pianificata amorevolmente affinché diventasse non solo un ricettario, ma soprattutto una storia della buona tavola e di chi vi si accostava con piacere.

Questa ricetta, come anche tutto il dizionario, lo potete trovare in lingua originale su dumaspere, un sito davvero prezioso per chi è affascinato dal mondo di Dumas.

Se invece siete più pignoli e volete cimentarvi con la ricetta vera e propria, io farei affidamento a gaufres e garganelli.

Buona abbuffata.

venerdì 20 dicembre 2013

Udolpho tra suorine e follia



Ann Radcliffe, I misteri di Udolpho, 1794.
Opera in quattro volumi.


Piero della Francesca, Santa Monaca, 1455-1460.

Quarto Volume

So far:


Emily ormai è scappata da Udolpho e dalle grinfie di tutti i cattivi italiani. Sfuggita ad un naufragio, approdata proprio dove doveva approdare e pronta ad entrare in un convento, non per farsi suora, ma per restarci fino a quando la sua proprietà, che era poi quella di suo padre, non sarà tornata libera dal suo affittuario, trova nuovi amici non solo nei proprietari del lugubre castello a due passi, ma anche nelle suorine sempre pronte ad accogliere una povera orfanella in difficoltà, soprattutto se il padre era morto e seppellito proprio là e la somiglianza dell'orfanella alla defunta marchesa del castello, quello lugubre e riabitato da poco, stupisce ed incuriosisce non poco.

Tra le suorine, tutte graziose e pettegole, c'è una suor Agnes. Ecco, lei non è proprio graziosa. Piuttosto possiamo dire che è un po' pazza, quello sì . Non che sia un pericolo, ma comunque inquieta e mette tanta curiosità. Nessuno conosce bene la sua storia, ma forse una sua consorella, suor Francis, ne sa qualcosa di più delle altre e, per semplice cordialità, propone di far partecipe anche Emily dei segreti della povera sorella pazza.

George Dunlop Leslie, In a covent garden.
Naturalmente segreti così lugubri possono essere svelati solo di notte, per non turbare altre orecchie nel convento. E così, tanto per cambiare, Emily si ritrova a vagare al buio e ad ascoltare storie raccapriccianti di follia e amore.

La storia la intuiamo e una volta svelata ci diciamo: "Lo sapevo!". In effetti ricorda parecchio la storia di quella Marchesa che abitava, una ventina d'anni prima, nel castello che ora è infestato da presunti fantasmi: lei amava un degno giovane inferiore di rango ma elevato di spirito; viene costretta a sposare un altro, il marchese; soffre molto perché non ama e viene trattata pure maluccio, nonostante lei sopporti e alla fine muore misteriosamente, probabilmente uccisa. Anzi, no, perché suor Agnes non è morta, ma rinchiusa in convento e diventata pazza. O forse prima diventa pazza... devo ammetterlo, non ricordo già più.

In ogni caso, viene spontaneo dirselo: ecco qua, la marchesa non è morta come tutti pensano, ma è diventata una povera pazza arcigna che farnetica di colpe e di redenzioni impossibili.

E invece no. Nel momento di rivelarci nero su bianco come sta la storia, la Radcliffe ritratta. Suor Francis si era sbagliata, aveva riportato una storia falsa. La Marchesa è morta davvero per mano del marito e questa Agnes ha un'altra storia che comunque si intreccia a due o tre giri non solo con la storia della marchesa, ma anche con quella di Emily e persino col castello di Udolpho. Un paio di salti mortali, di sfide alla legge delle probabilità e voilà, il quadrato diventa un cerchio.

A questo punto uno si chiede: ma lo ha fatto a posta ad infilarci una suor Francis con le informazioni sbagliate, era un tranello per indurci nell'errore e aumentare il pathos della scoperta, o ha cambiato idea in corso d'opera e reindirizzato tutta la storia verso la fine, risparmiandoci altri tortuosi sviluppi?

Beh, in fin dei conti poco importa. L'importante è che finalmente siamo arrivati sani e salvi alla fine. Tutto è bene quel che finisce bene.

Dire che a volte la Radcliffe sembra ripetersi e compiacersi in queste ripetizioni è dir poco. Eppure ci sono certi passaggi che tengono col fiato sospeso, che ti fanno perdere il sonno perché devi sapere cosa succederà dopo. Anche la costruzione dell'attesa risulta efficace: fin dalle prime pagine accadono eventi inspiegabili, che rimangono insoluti per capitoli e capitoli. A volte sorge persino il dubbio che la Radcliffe si sia dimenticata di essi e che non avremo mai la spiegazione, ma lei non ci delude mai e nonostante le apparenze, ha una memoria da elefante. Così, magari dobbiamo arrivare all'ultimo capitolo per chiarirci certi accadimenti, ma alla fine i chiarimenti arrivano.

La Radcliffe ha scritto anche un'altra opera ricordata frequentemente nelle liste del romanzo gotico, L'Italiano. Qualcosa mi dice che c'entrano ancora cattivissimi italiani nel romanzo, ma non vi allarmate, per il momento vi (e mi) risparmierò.



E adesso? Da che parte si va?



martedì 17 dicembre 2013

Udolpho tra Italia e italiani



Ann Radcliffe, I misteri di Udolpho, 1794.
Opera in quattro volumi.


Giorgione e Tiziano, Ritratto di nobiluomo veneziano,
 1510 c.
Terzo volume

So far: 

Siamo ancora in Italia e la nostra Emily viene sbattuta tra il castello di Udolpho incastonato negli Appennini e la Toscana, non troppo distante. L'Italia la circonda con tutti i suoi orrori e le sue bellezze.

Che Ann Radcliffe non abbia proprio girato il mondo, l'avevo intuito da quelle palme piantate sulle vette dei Pirenei. Ed infatti le sue biografie raccontano di una vita piuttosto sedentaria, lontana da Pirenei e Alpi, dalla Garonna o dalla Linguadoca e figuriamoci dall'Italia. E probabilmente anche dagli italiani. Come spiegare, altrimenti, l'immagine che esce dai suoi racconti del "gentiluomo" italiano?

Diciamolo, la signora Radcliffe non sembra nutrire una buona opinione del tipo medio italiano: eccessivo, sempre preda delle passioni più sfrenate che inevitabilmente portano al delitto o al peccato, violenti, viziosi.
Non se ne salva uno! O forse uno sì: il fido Ludovico, domestico del cattivissimo signor Montoni, vero eroe di molte situazioni incresciose e amoroso di Annette, la cameriera.

A proposito: di tanto in tanto sulla rete si legge che Emily viene salvata dal suo amore conosciuto in tempi ancora sereni, Valancourt. Ebbene diffidate di simili affermazioni. Valancourt, in questo momento, fa la bella vita a Parigi. Ma non vi svelo altro, se non che è Ludovico che c'entra, e non poco, con la fuga da Udolpho.

  
Caravaggio, I musici, 1595-1596
Altro dato di fatto che probabilmente nasce da un cliché caro alla signora Radcliffe è che in Italia si dorme poco e mai di notte. Allietati da profumi d'aranceti e di mirto, la notte si passeggia vuoi in gondola, vuoi nei bellissimi giardini, a seconda di dove vi capita di trovarvi; si ascoltano stuoli di cantori che sembrano invadere con la loro musica ogni angolo di strada o campagna o canale, si chiacchiera allegramente in compagnia numerosa.
Caravaggio, I bari, 1594-1595.
Questo, naturalmente, se sei un personaggio morigerato. Se sei uno cattivo cattivo, passi la notte tra  tavolo da gioco e complotti e non rincasi se non a mezzogiorno del giorno dopo. Bella la vita, direbbe mio padre.

 
Lorenzo lo vermi, Uva.
 E un'ultima parola la spenderei sul cibo italiano. Cavolo, in questo bel paese gli aranceti abbondano, le greggi non mancano, le mucche muggiscono a distanza, eppure cosa mangiano in preferenza questi ricchi italiani?
Biagio Magliani, Fichi.
Fichi ed uva. Giuro, fichi ed uva! Quando sono stressati e non riescono nemmeno a pensare di potersi sedere a tavola, fichi ed uva; quando sono allegri in compagnia, fichi ed uva; quando vogliono uno spuntino veloce o al pic nic, fichi ed uva.
Ma anche qui c'è una netta distinzione tra gente "per bene" e gente meno "per bene". Se ti capita di essere del secondo gruppo, allora non ti nutri più a uva e fichi, ma a vino, vino e ancora vino.

Bruno Benfenati, Fiaschi.
Concorderete con me che l'ideale italiano della Radcliffe non fa onore ai nostri avi. Ma questo è quanto. Accettiamo rassegnati il nostro ritratto, ma solo perché dubito che il romanzo potrebbe reggersi in piedi se togliessimo al signor Montoni e ai suoi connazionali un po' di quella cattiveria che gli è doverosa sbandierare.

In tutto questo, una domanda mi ha allambiccato la mente per più di qualche capitolo del terzo volume: ma la signora Radcliffe avrà mai mangiato un fico in vita sua?


sabato 14 dicembre 2013

Udolpho tra servette e damigelle



Ann Radcliffe, I misteri di Udolpho, 1794.
Opera in quattro volumi.


Jean-Etienne Liotard, La ragazza del cioccolato, 1744-1745.

Secondo volume

So far:

Emily è stata condotta via dalla sua Francia in un'Italia piena di personaggi eccessivi nelle loro passioni. I suoi affetti più cari sono morti o sono stati allontanati da una zia malvagia e stolta che, tanto per non smentire la sua incapacità di farsi un buon giudizio sulle persone, sposa un italiano, il Signor Montoni, cattivo come il male assoluto e crudele come il diavolo. Il Signor Montoni trascina le sue relazioni acquisite in giro per l'Italia, fino a segregarle nel castello di Udolpho, nel bel mezzo degli Appennini.
Qui, tra lugubri interni semi diroccati, Emily è sola, lasciata in balia di una giovane e simpatica cameriera: Annette, donnina dalla fervida immaginazione, un po' superstiziosa e parecchio loquace.

Frontispizio di Les Mystères d’Udolphe,
 1798, Tomo II, via wikipedia
Annette è un piccolo gioiello nella rosa un po' stereotipata dei personaggi. Non che dimostri di essere meno tagliata e sagomata rispetto agli altri, ma rappresenta un alter ego perfetto della sua giovane signora. Senza contare il suo ruolo di eccellente espediente narrativo, sempre lì a fomentare il pathos orrorifico.

Emily cerca di restare razionale, di ragionare lucidamente e raddrizzare la mente troppo fervida della piccola servetta.
Annette si abbandona alla fantasia più feconda: crede a tutte le storie di fantasmi che sente (e, naturalmente, le riferisce), vede e prevede apparizioni, si abbandona a scenate isteriche e contagia alla fine anche la sua signora.

Emily non osa chiedere spiegazioni a nessuno per non sembrare indiscreta.
Annette, con la solita allegra leggerezza che caratterizza le servette, chiede, osserva, spia e riferisce senza freni. Anzi, non riesce proprio a starsene zitta e la sua signora più volte è costretta a interromperla, persino a farla tacere bruscamente, affinché non sveli segreti che aveva promesso di mantenere.

L'effetto che si ha è quello che anche Walpole cercava di ottenere con l'avvicinamento di personaggi ingenui e personaggi più seri, come gli dettava l'esempio di Shakespeare (vedete qui, se non avete idea di che cosa si stia parlando : ) ); solo che la Radcliffe ha studiato meglio la cosa e mentre Walpole lasciava un po' perplessi nel suo tentativo, la Radcliffe ci riesce bene, spesso ci fa proprio sorridere, se non ridere. Un esempio:

Un tipo losco promette di far incontrare Emily con la zia rinchiusa in qualche remoto antro del castello, a patto che lei lo raggiunga di notte in un luogo deserto e per di più completamente sola. Al che, Emily si interroga: "Perché questo tizio di cui non mi fido mi vuole per forza sola?"

- Perché! Questo è quello che gli ho chiesto io stessa, signorina. Gli ho detto: "Perché la mia giovane Signora dovrebbe venire da sola? Sicuramente io posso venire con lei! Quale male potrebbe mai fare la mia presenza?" Ma lui ha detto: "No - No - Ti dico di no" in quel suo modo burbero. "Beh, - ho detto io - mi sono state affidate confidenze importanti almeno quanto questa e sarebbe proprio il colmo se IO non riuscissi a mantenere un segreto, suvvia." Ma ancora, non diceva altro che "No - No - No". " Oh - ho detto, se solo tu mi dessi fiducia, ti direi un grande segreto che mi è stato confidato un mese fa e su cui non ho ancora aperto bocca con nessuno. Vedi, non devi aver paura di dirmelo." Ma niente, non c'è stato modo di dissuaderlo. [...]  Ma io lo so, Signora, chi vedrete.
- Chi te lo ha detto, Barnardine (il losco figuro, nda)?
- Eh, no, signorina, non me lo ha detto lui.

Emily chiese chi glielo avesse mai detto, ma Annette dimostrò fino in fondo come lei sapesse davvero mantenere un segreto.


È o non è un piccolo capolavoro, la nostra Annette?






mercoledì 11 dicembre 2013

Udolpho tra Alpi e Pirenei



Ann Radcliffe, I misteri di Udolpho, 1794.
Opera in quattro volumi.




Lettura di Udolpho, via Victoria University Library

Volume primo

So far (breve introduzione, tanto per capirci qualcosa):

Il signor St. Aubert, signore francese fissato con le gioie derivate dalla contemplazione della natura, porta la sua unica figlia, Emily, a Tolosa. Ma invece di farle percorrere le comode strade che dalla loro residenza sulle rive della Garonna, in Guascogna, conducono direttamente alla loro mèta, il saggio signore trascina la ragazza per le cime dei Pirenei su una vettura trainata da muli. Non che la giovane sia dispiaciuta in ogni caso. Era l'anno del Signore 1584.

Eccoli qui, i Pirenei. Stupendi, pericolosi, poco praticabili e ad ogni angolo sublimi. Quanti strapiombi e svettamenti, quanti burroni e valli nascoste da foschie, e boschi, e ghiacciai...

Tanto per non farsi mancare nulla, i nostri viaggiatori sbagliano strada, tergiversano e passeggiano allegramente per riempirsi gli occhi di paesaggi raccapriccianti, declamando poemetti di loro composizione, bighellonano incuranti dell'ora che si fa; più di una volta si ritrovano al buio, di notte sulle scoscese, spaventati dal fatto di non riuscire a trovare nemmeno un rifugio di pecorai tra i ghiacciai. Quando si dice l'esperienza NON insegna!

E all'improvviso, quasi inaspettatamente, la visione si riempie del sublime più spettacolare:

Il  profondo silenzio di queste solitudini era interrotto solo a tratti dall'urlo degli avvoltoi radunati intorno a qualche cima più in basso, o dal grido dell' aquila alta nell'aria; faceva eccezione il sordo tuono che a volte mormorava ai piedi dei viaggiatori in ascolto. Mentre al di sopra il profondo blu dei cieli regnava limpido e libero dalla nuvola più leggera, a metà strada, giù per la montagna, lunghi flutti di vapore si accavallavano, a tratti oscurando completamente la valle sottostante alla vista, a tratti aprendosi e rivelando parzialmente le sue fattezze. Emily, deliziata, contemplava la magnificenza di quelle nubi mentre cambiavano forma e tinte e ne ammirava i vari effetti che producevano sul mondo sottostante e i profili della valle che, parzialmente velati, assumevano continuamente nuove forme sublimi.

Morguefile

Valeva la pena di sforzarsi per dar vita a qualche descrizione, vero?

Al prossimo volume. : )



domenica 8 dicembre 2013

Reading in progress



Lo ammetto, sono cascata nella trappola che io da sola mi sono preparata e sono rimasta impigliata nella rete del romanzo gotico. Chi mi ha incastrato?
Questa signora:


Ann Radcliffe via listas.20minutos


Non vi dice nulla? Non ci posso credere!

Credo che il suo I misteri di Udolpho sia uno di quei tipici romanzi conosciuti da tutti, ma solo di nome.
Io lo lessi quando ero ancora una ragazzina che poco aveva visto del mondo e, devo essere sincera, tutto quello che mi è rimasto è il tedioso ricordo di montagne e precipizi. Ben poco, insomma.

L'ho ripreso in mano, un po' per dovere, un po' per curiosità (possibile che di quattro volumi io mi ricordi solo uno sguardo a precipizio sulle valli alpine?) e cosa trovo?

Beh, le Alpi, naturalmente.

Ripreso da themagicfarawayttree.
Diciamo la verità, se ai Misteri di Udolpho togliessimo le descrizioni naturali, cosa rimarrebbe delle 1029 pagine del romanzo?

La cosa complicata sta proprio qui, nelle minute descrizioni. Nomino appena la difficoltà rappresentata dagli elenchi di vegetazione   improbabile (che sui Pirenei ci siano terrazze ombreggiate di palme, mi sembra poco probabile); il più grande scoglio per me sta nel dar forma a tali descrizioni e guardarle, oltre che leggerle. Perché mi rendo conto che saltarle o non dar loro il giusto credito sarebbe come non cogliere pienamente il contenuto del libro.

Ma la difficoltà oggettiva c'è. Burke nel suo trattato sul sublime e sul bello, diceva:
 Lo so che la mente possiede la facoltà di far sorgere queste immagini (quelle descritte nella poesia, nda) a suo piacimento. Ma per far ciò un atto della volontà è necessario; e in una conversazione ordinaria o nella lettura accade molto raramente che una qualsiasi immagine sia prodotta nella mente.
È proprio così, ci vuole uno sforzo per vedersi davanti i bellissimi paesaggi con cui la Radcliffe infarcisce il suo romanzo, uno sforzo che specialmente al giorno d'oggi non siamo abituati a fare.

Catherine Morland legge Udolpho
(ill. di H.M. Brock) via unteconjaneausten
In questo lento allenamento della mente, una lettrice costretta a leggere nei momenti più impensati potrebbe metterci molto prima di raggiungere la capacità richiesta. Aggiungiamoci, come dicevo sopra, che il malloppetto consta di 1029 pagine, ed ecco che si spiega la lentezza generale che assumono le mie letture in questo periodo e che inevitabilmente si riverbera sul diario che è questo blog.

Per evitare, allora, di sparire dalla circolazione, mi sono detta: perché non far partecipe del mio avanzamento quel poveraccio che di tanto in tanto capita in queste mie pagine? Tanto, diciamolo, chi si metterà mai a leggere la Radcliffe?

Ecco qui come nasce l'idea dei Reading in progress. Naturalmente, come sarà forzatamente necessario, queste pagine saranno piene di spoilers e dissacrazioni varie. Quindi, lettore che vuoi sperimentare personalmente le letture riguardanti la nostra eroina Emily, stammi lontano per almeno i tre o quattro post a seguire. Tanto ci vorrà, credo, a smaltire i quattro volumi dei Misteri.

Se invece non credete possibile l'eventualità di subirvi in questa vita anche Udolpho, seguitemi pazientemente. Qualcosa di interessante salterà sicuramente fuori. 


Il cast of Dracula (dir. Tod Browning, 1931), via Orangecrateart





giovedì 5 dicembre 2013

Stacchetto operettistico



Ma non vi manca un pochino il nostro Conte di Montecristo?
"Zitto! Ecco che si rialza il sipario, ascoltiamo. Non perdo una nota di quest'opera, è tanto deliziosa la musica del Guglielmo Tell!"

Eh, sì, è proprio il Conte di Montecristo che parla.
Il Guillaume Tell, per chi non lo sapesse, è un'opera di Rossini (quello del Barbiere di Siviglia, tanto per capirci) ed è anche l'opera che inaugura il Grand Opéra, quel genere operistico che dura una quaresima, pieno di balletti e sfilate, stacchetti e coretti vari.

Senza entrare nello specifico della trama, vi lascio solo un estratto dell'ouverture. Ditemi se non vi sembra di aver già sentito qualcosa di simile. 





lunedì 2 dicembre 2013

La Traviata



Come accennavo nel post precedente, La signora delle camelie ha subìto varie riadattazioni. Una per il teatro, già lo stesso Dumas figlio si era adoperato a produrre. Poi arrivarono Verdi e il suo librettista Francesco Maria Piave che, apprezzando l'opera teatrale, ne ricavarono la loro famosa Traviata del 1853.


 
 

Se vi sfugge di mente la storia, fatevela raccontare dalla Clarina e state certi che non vi annoierete.

Ma adesso, non vorrei avervi intristito. Certo, la storia di Violetta non è tra le più allegre.
Vabbè, se proprio vi sentite salire il magone, guardatevi la reinterpretazione di Gigi Proietti. Sono sicura che vi ritirerà su il morale.


                                         



venerdì 29 novembre 2013

Dumas figlio: moralista o autore scandalistico?



Beh, la differenza tra l'etichetta di "moralista" e quella di "autore scandalistico" non è proprio sottile. Eppure entrambe sono state affibbiate a Dumas figlio.

Bisogna spiegare un pochino, perché, detto così, potrebbe sembrare o un bacchettone o un depravato.

Se vi capita di prendere in mano un lavoro di Dumas figlio, non vi aspettate di ritrovarvi davanti ad un'opera come quelle del padre. Niente situazioni avventurose o personaggi eroici. Vi troverete a leggere la storia di persone spesso isolate o gravitanti ai margini della società: la cortigiana, il figlio naturale, la madre sola, l'adultera. Tutta materia reale, cose di tutti i giorni, tanto che il suo teatro viene definito il capostipite del teatro naturalista. Ma questi prototipi ben conosciuti e anche riconoscibili, non vengono additati con un intento moraleggiante. La sua è una denuncia non tanto contro di loro e le loro colpe, quanto contro la falsità o l'indifferenza che il resto della società mostra nei loro confronti. Invece di nascondere e stendere un velo di silenzio su una pratica molto diffusa come quella di mantenere una cortigiana, Dumas mostra quale sia la pratica meschina dell'alta società che non solo le accetta, ma le idolatra, le rende un "fiore all'occhiello" da possedere e di cui vantarsi. Naturalmente a patto che esso non si mischi alla donna per bene, moglie e madre di famiglia che non deve nemmeno incontrare per strada un simile esempio di corruzione. Per questo Dumas figlio viene definito scrittore di scandali, per la materia che trattava e che fino ad allora era piuttosto inusuale.


Ma questo è solo uno dei temi rivoluzionari che Dumas affronta. Noi conosciamo questo in particolare grazie alla sua La signora delle Camelie, opera da cui lui stesso ha tratto un'opera teatrale diventata famosissima grazie a Verdi e alla sua Traviata, ma la varietà della sua denuncia non si ferma di certo alla cortigiana. Ad esempio, ne Il processo Clemenceau abbondano temi che generalmente vengono definiti come legati alla disintegrazione familiare. E allora compare la madre sola che cresce il figlio senza padre, il piccolo bastardo che viene perseguitato dai suoi coetanei, la condanna della legislazione riguardo al mancato riconoscimento dei figli nati al di fuori del matrimonio, la discussione sul diritto al divorzio in casi gravi quale l'adulterio. Ma ci sono anche accennati altri spunti interessanti, come l'ereditarietà del carattere corrotto dal vizio o la definizione di arte e del Genio. Senza contare che nella trattazione di alcuni di questi suoi temi, l'autore riprende a piene mani episodi della sua stessa biografia.

Le Théâtre illustré. L'affaire Clémenceau,
pièce tratta dal romanzo di Alexandre Dumas figlio,
da Armand d'Artois. Scena ultima del 5 atto: 
disegno di Adrien Marie
Il processo Clemenceau scorre un pochino meno spedito de La signora delle camelie, lo devo ammettere, eppure non riuscivo a staccarmici! La signora delle camelie a tratti raggiunge un pathos lirico degno di essere ricordato e riletto, nonostante le tirate moralistiche (appunto! :D), ma Il processo Clemenceau rivela completamente quale sia il pensiero di Dumas figlio, quale ne sia la poetica e l'ideologia.

Fa strano ritrovare in un'opera ottocentesca una simile unità programmatica che si auspica se non proprio di sovvertire le leggi morali di una società falsamente morigerata, almeno di far risaltare questa falsità di base, auspicando un cambiamento non tanto negli usi, ma nella legislazione che permetta di dare uno statuto, un riconoscimento ai prodotti nati da tali situazioni (l'obbligo, ad esempio, da parte del padre di riconoscere per legge il figlio naturale) . E fa anche strano vedere poi come tutte quelle che erano proposte o tesi, al giorno d'oggi si siano realizzate.

Che ci fosse un piano oscuro di sovversione del mondo, dietro?

martedì 26 novembre 2013

Alexandre Dumas fils



Oggi partiamo alla scoperta di un altro Dumas: Alexandre Dumas figlio.


Alexandre Dumas Fils. Immagine da
http://www.wikigallery.org/
Penso che non si possano creare dei personaggi senza aver studiato a fondo gli uomini, come non si può parlare una lingua che a patto di averla imparata seriamente.
Non avendo ancora raggiunto l'età nella quale s'inventa, mi accontento di riferire.*
Ed in effetti, la maggior parte non dico dei personaggi, ma almeno dei temi che tratta e narra nella sua opera, Alexandre Dumas figlio li riprende dalla sua esperienza di vita.

Allora scorriamola, almeno a grandi linee, questa vita.

Se si spulcia un po' su google alla voce A. Dumas figlio appariranno una serie di blog e siti che riportano tutti le stesse notizie, quasi le avessero tagliate e incollate da una unica fonte. Probabilmente quel "quasi" lo potremmo anche togliere, ma non mi voglio soffermare su questa curiosità, quanto sul fatto del come venga trattata la suddetta vita.

Giovane Alexandre Dumas padre,  
Eugene Delacroix.
Di avvenimenti importanti non è che ce ne siano poi molti. Nato per caso da una relazione occasionale del giovane Dumas Padre con la sartina dirimpettaia, non viene riconosciuto né dalla madre, né dal padre fino ai suoi sette anni. A quest'epoca il padre, e dopo una settimana la madre, lo riconoscono, litigano e vanno in tribunale per reclamare l'affidamento. Vince il padre, che lo toglie alle cure della madre e lo mette in collegio.

Questo evento, o meglio, questa serie di eventi, segnerà la vita del ragazzo. Beh, difficile pensare il contrario. Ah, e non dimentichiamoci che per questo proverà un profondo rancore verso il padre per il resto della sua vita. Non riusciva proprio a perdonargliela. Del resto, lo aveva allontanato dalla madre amorosa e lo aveva messo in collegio per dargli una degna istruzione, ma si sà, anche nei migliori collegi i ragazzini sono ragazzini e se per caso ti ritrovi in classe con un "bastardo" - ops - figlio naturale, beh... diciamo che non ci si va per il sottile.

Eppure, leggendo qua e là qualcosa di Dumas figlio, uno si accorge di un paio di cosette che dal racconto biografico frettoloso non emerge. Ad esempio, lo sapete che questa figura del padre, come anche del figlio naturale, salta in continuazione nei suoi lavori? E lo sapete che la figura che ne fa il padre non è quella dell'odiato genitore, ma è piuttosto quella dell'uomo in balia delle sue passioni, che adora ed è adorato dal figlio ma che allo stesso tempo diverge profondamente sulla visione della vita e che questa è la causa delle tante incomprensioni che bene o male si risolvono positivamente?

Almeno questo è quello che ci racconta la commedia Un padre prodigo, rappresentata per la prima volta il 30 novembre 1859. Ebbene, leggendolo si capiscono molte delle dinamiche tra i Dumas padre e figlio e soprattutto si ha un ritratto impressionante e, a quanto posso riscontrare da altre fonti, veritiero del carattere di Dumas padre. Mi viene da pensare, quindi, che in effetti Dumas figlio poteva avere dei motivi di conflitto col padre, ma allo stesso tempo aveva imparato se non ad apprezzarlo per il suo stile di vita, almeno ad amarlo per la sua bonomia.

Un altro evento che condizionò la produzione di Dumas figlio è senza dubbio la sua tresca amorosa con la cortigiana Marie Duplessis. Con lei, Dumas ebbe una breve relazione dal settembre 1844 all'agosto 1845, ma tanto bastò per rimanere fortemente colpito dalla realtà in cui la sua amante brillava, dalla sua morte e da tutto il mondo che girava intorno a queste donne tenute al margine della società, ma che comunque la decoravano e la ispiravano.
Marie Duplessis,
ritratta da Camille Roqueplan

Inutile menzionare La signora delle camelie (1848) come l'opera che ritrae e celebra Marie Duplessis, sarebbe banale ricordarlo.

Pochi altri fatti sono importanti nella sua biografia, almeno ai fini della sua produzione.
Per non appesantire ulteriormente il mio discorso, lascerò che siate voi a decidere se sia il caso di approfondire. Tanto, come dicevo, internet è pieno della (stessa) biografia di Dumas figlio. :D


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* Con queste due frasi si apre La dame aux camelias, scritta nel 1848.

sabato 23 novembre 2013

Stacchetto castellano



Se vi capita di trovarvi nel Salento e volete andarvi a vedere per curiosità il famoso castello d'Otranto, non vi aspettate di trovare l'originale del romanzo di Walpole. Purtroppo nel 1480 arrivarono i Turchi che, come al solito, non ci andavano leggeri. Distrussero il castello e uccisero gli 800 prodi che lo difendevano, lasciando poche rovine dietro di loro. Tra il 1485 e 1498 Ferdinando D’Aragona lo fa ricostruire e quello di oggi è il risultato dei vari interventi successivi. È un'esperienza particolare passeggiare per le sale dei vari piani, perché non è facile orientarsi. In effetti, il castello è costruito proprio con l'intento di disorientare chi vi entri per la prima volta. Sapete, in caso i Turchi dovessero ritornare...




Anche la mappa del castello è particolare: tre torrioni, uno sperone, il mare da una parte, un fossato dall'altro. Non male in fatto di suggestioni.


   
Giorgio De Chirico, Piazza d'Italia

Oggi è aperto al pubblico solo durante la stagione estiva e tutti gli anni ospita una mostra diversa. L'anno scorso c'era Andy Warhol, quest'anno De Chirico.


Andy Warhol, Marilyn Monroe




Inauguriamo il tour d'Italia dal Castello d'Otranto e dalla stupenda Otranto, il punto più ad oriente della nostra penisola?



mercoledì 20 novembre 2013

Il Castello d'Otranto di Horace Walpole



Tutti gli studiosi, unanimamente, concordano nell'attribuire una grande importanza al trattato sul Sublime e il Bello di Burke nella creazione del nuovo gusto romantico. E, naturalmente, anche in quella del romanzo gotico. Ed eccomi tornata in qualche modo, barando forse un pochino, al punto di partenza: The Castle of Otranto di Horace Walpole.

Immagine ripresa da Spontis
In effetti, non c'è bisogno di essere grandi studiosi per rintracciare gli elementi che creano l'idea del Sublime nei romanzi gotici in genere e ne Il Castello d'Otranto in particolare: le grandezze raccapriccianti, l'oscurità, le linee spezzate dei paesaggi drammatici e delle costruzioni...

Ma se questo gusto per il Sublime può essere uno degli stimoli da cui prende forma il nuovo genere, di sicuro non resta il solo.

Quando Horace Walpole, dopo il primo successo de Il Castello d'Otranto del 1764, pubblica una seconda edizione, oltre a scusarsi per aver ingannato il suo pubblico attribuendo l'opera ad un manoscritto italiano medioevale, svela anche il vero motivo che lo ha indotto a scrivere. Ormai è cosciente del fatto che il suo romanzo stia dando vita ad un nuovo genere diverso dai vecchi  in modi diversi.

Immagine da considertheevidence
Il primo di questi modi è la trattazione dell'invenzione narrativa.
Walpole, imbevuto di reminiscenze gotiche e medievali, ha un debole per il romance* medievale, lo ammette senza problemi. Ma pur essendo affascinato dalla scatenata fantasia che lo anima, non ne nega i limiti. In esso tutto era immaginazione, tutto si sviluppava con la condiscendenza dei personaggi che non vedevano niente di bizzarro nell'improbabile in cui erano calati, ma anzi, ci si adeguavano con dialoghi e reazioni innaturali, a loro volta improbabili.
Al contrario, nel romanzo moderno (novel) tutto aderisce alla realtà razionale e, pur non essendo privo di invenzioni narrative, non conosce quel guizzo dell'immaginazione che eccita la fantasia.

Sentendo questa discrepanza come una mancanza, Horace Walpole compie un esperimento: cerca di amalgamare i due tipi di narrazione in qualcosa di nuovo, che permetta ai personaggi di muoversi in una realtà fantastica, pur sfoggiando una sensibilità moderna. Grazie ad essa, trovandosi di fronte a questo strano e orrorifico fantastico, i protagonisti non parlano più a vanvera, ma agiscono come un qualsiasi uomo moderno potrebbe fare: con stupore, terrore, meraviglia.


Il secondo modo in cui il suo tentativo diventa originale riguarda il melange dei registri adottati. Sempre nella seconda prefazione traspare anche l'apprensione che Walpole provava nel dover giustificare non solo un esperimento di genere, ma anche di stile.
Già nella prima edizione aveva previsto quali potessero essere gli argomenti contro il suo romanzo e li aveva anticipati. Ma è nella seconda che prende con più determinazione le difese del suo stile che, come lo stile Shakespeariano a cui si rifà, si abbandona a scene di tensione drammatica aspiranti al Sublime (sostenute dai personaggi principali) a scene quasi comiche, che nelle sue intenzioni hanno il compito di accrescere tramite contrasto la drammaticità complessiva (reazioni "ingenue" dei personaggi secondari: la dama di compagnia, i paggi, etc.). Miscuglio di stili non proprio apprezzato da Voltaire e compagnia bella, come ci dice l'autore stesso, ma che assumono il benestare dall'esempio autorevole di Shakespeare. E tanto basterebbe ad eliminare ogni discussione.

E poi, ammettiamolo, l'autore non aveva tutti i torti dicendo:

Avrei potuto affermare che avendo creato un nuovo tipo di romanzo, ero libero di formulare per esso le regole che ritenevo più adatte;
Insomma, il romanzo è mio e me lo faccio come piace a me! Ma, certo, l'aver "copiato" i modi di Shakespeare nobilita, se possibile, l'intento dell'opera e ne giustifica i modi.

Che il genere abbia poi avuto il plauso del pubblico, mi sembra inutile persino accennarlo. Guardate quanti vampiri e vampiretti, per non parlare di Zombies e Lupi Mannari girano tra le serie Tv e gli scaffali delle librerie virtuali e non. Se Horace Walpole non avesse compiuto il suo esperimento, forse non avremmo avuto tutta questa bella popolazione sovrannaturale a rallegrarci nelle notti di Halloween. O forse non ancora.


Johnny Depp in Dark shadow, 2012.



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* Romance(1) :  un racconto medievale basato su leggende, amori e avventure cavalleresche o sul soprannaturale; (2) :  una narrativa in prosa trattante personaggi immaginari coinvolti in eventi lontani nel tempo o nello spazio e generalmente eroici, avventurosi o misteriosi.


domenica 17 novembre 2013

Il Sublime: questo sconosciuto



 Il SUBLIME!

Viandante sul mare di nebbia, Caspar David Friedrich.

Quante volte mi è capitato di imbattermici, di vederlo accostato a Romanticismo e Gotico?
Un'infinità.

E quante volte, pur leggendo le definizioni di studiosi o affini, sono rimasta perplessa davanti al suo senso?
La stessa infinità.

Il castello Alnwick, William Turner (ca. 1829).
Immagine ripresa da Victorian British Painting
Eh, ma ve l'ho detto. Sono a digiuno di filosofia!

Eppure, tutto sommato, è semplice. Più di quello che molti tentativi di spiegarlo vogliono dimostrare.

Prima di tutto, bisogna scrollarci di dosso il comune significato che diamo al giorno d'oggi alla parola "sublime". Via, resettiamone il campo semantico e partiamo da capo.

La maggior parte delle persone che cerca di spiegaro prende come punto di riferimento questa frase:
Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore è fonte del sublime.
Ok, ma questo non spiega cosa sia questo Sublime. O mi sbaglio? Anzi, uno potrebbe anche essere fuorviato e indotto a pensare che il Sublime sia il terrore.
No, non lo è. O almeno non solo.

Il Sublime, fratello oscuro del Bello, è una categoria, un'idea. Si potrebbe dire che Sublime e Bello siano due facce della stessa medaglia. Ma mentre il Bello trae la sua origine dal piacere, il Sublime la trova nel dolore, o meglio, nella paura che il dolore e la morte in ultima istanza ci fanno sperimentare. Se il pericolo per la sopravvivenza che scatena tali reazioni è reale e vicino, il nostro sentimento resta puro terrore, cosa diversa dal Sublime. Ma se tra noi e la reale minaccia c'è una distanza e quindi non corriamo alcun pericolo prossimo, scaturisce in noi una sorta di piacere che non è un piacere positivo, ma è quello che Burke definisce delight. Chiamiamolo delizia? Diletto? Non so come i filosofi italiani lo traducano, ma a me suona bene delizia.

Ok, faccio un passetto di lato e riprendo quel "piacere positivo" che per me voleva dire poco e niente fino a quando Burke non me lo ha spiegato (Mamma come mi sento ignorante!).

Immagine di Karpati Gabor
Burke presuppone che il caro Locke, che parla anche lui di piacere e dolore, non ci avesse proprio azzeccato quando definiva piacere e dolore rispettivi contraltari. Locke diceva, in soldoni, che piacere e dolore erano le passioni che dominavano l'uomo. Quando non c'è piacere, deve per forza esserci il dolore a sostituirlo e viceversa.
A Burke non convince molto questo rapporto diretto dolore-piacere. Secondo lui e la sua esperienza, noi partiamo da uno stato di indifferenza. Poi ci cadono addosso le cose o gli avvenimenti e allora questo stato passa o al piacere (positivo), o al dolore (positivo). Ma nota anche che è vero, quando dal dolore ripassiamo allo stato di indifferenza, ci sembra di provare una sorta di piacere, ma non è della stessa pasta del piacere positivo; è quello che lui tende a chiamare delight.

Ed ecco che la spiegazione di Sublime raggiunge un suo compimento. Esso è qualcosa che nasce dall'anticipazione di dolore, pena o morte, ma che porta con sé anche un senso di delizia, vuoi perché il pericolo non è reale, vuoi perché è un pericolo fisicamente lontano. In esso non c'è un vero piacere positivo, ma una sorta di piacevole sconquasso emotivo.

Quindi, il Sublime è alimentato da tutto ciò che ispira terrore, ma che comunque non mette in pericolo la persona. In più, mettiamoci pure che è la sensazione più forte che l'uomo è capace di sperimentare perché va a stuzzicare il nostro istinto di sopravvivenza.

Devo ammettere che ho faticato un pochino a classificare questo Sublime. Anche perché a volte si ha la vaga impressione di avere a che fare con un'idea, una categoria, altre con un sentimento, una "passione", o ancora una qualità.

In ogni caso, Burke fa le cose fatte bene e ci dona persino indicazioni e spiegazioni che ci permettono di identificare gli oggetti e le situazioni che alimentano il Sublime (l'oscurità, la vastità, la discontinuità etc., etc.) e tenta persino di spiegare razionalmente il come esso possa agire a livello fisico e psichico. Insomma, un vero razionalista che tenta di spiegare la poetica del futuro Romanticismo. :D

Bene, per oggi credo di aver esaurito i miei argomenti. Ormai penso che si sia capito in che direzione vorrei continuare. E soprattutto vi prometto, basta con i filosofi, almeno per un po'. 

giovedì 14 novembre 2013

A caccia del Sublime




Edmund Burke, studio di Joshua Reynolds

I only desire one favor - that no part of this discourse may be judged of by itself, and independently of the rest.
"Chiederei solo un favore - che nessuna delle parti di questo discorso sia giudicata da sola, indipendentemente dal resto."
È questo che chiede Edmund Burke, nel suo A Philosophical Inquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and the Beauty. E io l'ho accontentato, l'ho letto tutto. Perché?
Beh, ad un lettore un pochino più sperimentato sarà subito evidente da dove parto per arrivare dove. Per gli altri, non anticipo nulla.

Immagine da arantxaalcubierre
Vi dico solo che Edmund Burke scrisse questo trattatello filosofico nel 1756 e lo ampliò l'anno seguente.


Io, devo ammetterlo, sono abbastanza a digiuno di folosofia. Non l'ho mai studiata seriamente e le poche nozioni che ho sono piccole briciole raccolte qua e là. Spaventata un pochino dal titolo di trattatello filosofico, ho pensato bene di scaricarmi la versione italiana. Se non capisco niente di filosofia, figurati se ci capisco qualcosa di filosofia spiegata in un inglese del XVIII secolo!

Scaricata la versione elettronica di una delle biblioteche virtuali di cui mi servo di più (non ricordo se Project Gutenberg o Internet Archive), inizio a leggere l'introduzione e dopo nemmeno una pagina mi scontro con un paio di difficoltà.

La prima: la versione è piena di errori, lettere trascritte con altre lettere che c'entrano poco e niente, che quindi formano parole storpie e indecifrabili e che aumentano infine la difficoltà di comprensione.

La seconda: doveva essere la prima traduzione in italiano del trattato, una che almeno almeno risaliva alla fine del '700. Immaginate una lingua così arcaica da rendere ancora più oscuro il significato del pensiero che spiegava.


   
E. Burke, Introduzione




Siccome sono decisa a proseguire per questo sentiero, mi sono andata a  cercare l'originale, convinta che difficilmente poteva essere più complicato della versione italiana. Ed infatti, sin dalle prime righe, un raggio di sole  illumina le parole, il pensiero diviene chiaro e semplice: lo capisco! Capisco senza difficoltà persino il senso di quello che l'autore scrive!

Da qui una riflessione mi è venuta spontanea lì per lì: quanto la nostra lingua si è evoluta in due secoli e quanto l'inglese, invece, è rimasto immobile, quasi immutato?

Vita di Vittorio Alfieri scritta da esso, 1790.
Se non fossi presa da altri labirinti, mi potrei anche perdere nella storia della lingua dei nostri paesi, che poi è anche storia delle nazioni. Ma si andrebbe troppo lontano e si sconfinerebbe in altri reami. E siccome al momento traggo più diletto dal romanzesco che non dallo storico, abbandono questo sentiero appena accennato: non farò come quella sciocchina di Cappuccetto Rosso che si infila sotto le grinfie del lupo e continuo a testa bassa per la mia strada.


Cappuccetto Rosso e il Lupo, preso da qui

lunedì 11 novembre 2013

Stacchetto grottesco



Oggi non abbiamo più il gusto delle passeggiate in giardini decorati da grotte, ma fino al secolo scorso (leggi Ottocento) le grotte erano un must nei giardini eleganti di tutta Europa.

Già i romani le adoravano e le seminavano un po' ovunque.Ma loro avevano la scusa di porci le divinità e di usarle come luoghi di rito. Naturali o artificiali, tutto andava bene.





L'uso di costruire grotte in giardino si andò poi perdendo nei secoli del Medioevo, ma come non riscoprirle durante il rinascimento? E, siccome le grotte umide e zozze erano poco auliche, riprendendo rari esempi classici, si pensò di decorarle con pietre e minerali luccicanti, mosaici, ingegnosi giochi d'acqua e chi più ne ha più ne metta.
Un esempio illustre lo dona la Grotta del Buontalenti, nel giardino di Boboli a Firenze, quella nel video. 



Ma la tradizione della grotta non si spense affatto nei secoli successivi. Al contrario, contagiò un po' tutta Europa. Arrivò persino in Inghilterra, nel 1700. Ma qui, giustamente, si pensò che l'effetto migliore non era dato dagli elementi decorativi sfarzosi, ma dalla brutale naturalità calcolata degli antri grotteschi. Così i giardini anglosassoni si riempiono di caverne, suggestive nella loro cruda simiglianza alle naturali grotte.

Grotte e rovine nel Giardino Inglese del Castello di Chantilly

Il gusto per le grotte rimarrà in auge per tutto l'800 e solo nel '900 si perderà un pochino l'abitudine di passeggiare tra caverne e grotte artificialmente eleganti.